L’ex Pink Floyd David Gilmour vola in America dopo l’incanto romano e londinese: “Sono in pace con il tempo che passa. Quest’ultimo tour regala vere emozioni”

La morte sembra essere una delle tematiche care a David Gilmour (“A single spark” la dice lunga) ed è «un tema che non deve spaventare, torna continuamente nelle ultime canzoni ed anche nella mia vita, dà consapevolezza e non sono in cerca di consolazione». L’ex Pink Floyd si racconta prima delle sue tappe londinesi alla Royal Albert Hall, dove, secondo chi lo aveva già applaudito nelle sei date al Circo Massimo di Roma, ha sensibilmente ingranato la marcia, giocando “in casa” con alcune serate speciali, in cui l’empatia ha tenuto distante quel po’ di freddezza contestata in Italia da qualche critico.


Gilmour (qui sopra fotografato da Gavin Elder), notoriamente riservato, per presentare l’album “Luck and Strange”, che lo ha  portato in quello che ha detto essere «l’ultimo tour», ha fatto eccezione. Da settimane parla con giornalisti da tutto il mondo, si ferma con i fan più affezionati e appare sereno e appagato dall’idea di suonare dal vivo.
C’è, tuttavia, un argomento da evitare, anche perché se n’è già parlato moltissimo: l’antica querelle con Roger Waters è rimbalzata, di recente, attraverso i social. E c’è chi dice che “Yes, I have ghosts” sia rivolta a lui. A ribadire, ancora una volta, la distanza tra i due e, di conseguenza, l’impossibilità non solo di una reunion, ma di una collaborazione. Nel frattempo i Pink Floyd hanno venduto il catalogo a Sony Music, «non tanto per questioni finanziarie, ma per mettere fine a tutte le liti», ha dichiarato Gilmour. Il lato romantico di questa operazione, che piacerà comunque ai fan del gruppo, è che ne beneficeranno Gilmour, Waters, il batterista Nick Mason ma anche gli eredi del tastierista Richard Wright e del cantautore Roger “Syd” Barrett, fondatore e primo leader del gruppo.

Bypassando l’argomento, conviene gioire delle belle interpretazioni londinesi, non solo delle canzoni di Gilmour, ma della cronologia floydiana dei classici, tra i consueti e fumosi giochi di luce psichedelici. La prima performance apre con “5 A.M.” e chiude con “Comfortably numb”, tanto per rendere l’idea. La sua chitarra lussureggiante è spesso la principale protagonista, insieme alla voce e al gruppo, particolarmente affiatato: la figlia Romany all’arpa, che duetta con il padre in “Between two points”, cover di un bellissimo brano dei Montgolfier Brothers, il bassista e collaboratore di lungo corso Guy Pratt, il chitarrista Ben Worsley, il batterista Adam Betts e il tastierista virtuoso Greg Phillinganes. Tra due giorni, saranno tutti di scena a Los Angeles.
«Sono molto contento di suonare con questi musicisti, ed anche con mia figlia Romany. Perché l’album “Luck and Strange” ha una forte dimensione intima. Ci siamo ritrovati rinchiusi tra le mura di casa, fortunatamente in fase creativa, durante il lockdown. Si sono poi aggiunti amici come Steve Gadd e Brian Eno, che stimo molto».


La maggior parte dei testi li ha scritti sua moglie Polly, ma lei li esprime intimamente.
«Il nostro è un rapporto speciale e lei mi conosce meglio di chiunque altro. Il nostro segreto è la condivisione di pensieri e sentimenti, ecco perché ciò che lei ha scritto mi appartiene totalmente».

Il carattere del suo ultimo album è meditativo, riflette sul tempo che passa e, forse, non è un caso se la title-track ospita Richard Wright.
«Sono un uomo, e un artista, in pace con il tempo che passa. La registrazione con Richard risale al 2007, la facemmo in un fienile e conservo un bellissimo ricordo, di lui e di quel momento. Ma tendo a guardare avanti, per questo motivo ho chiamato a produrre il disco Charlie Andrew, di cui apprezzavo il lavoro. Mi è capitato di produrre, ma è un lavoro pesante e serve sempre un “controcanto” per prendere le decisioni migliori. E mi interessa lavorare con i giovani, hanno una visione differente dalla mia e da questo confronto, almeno nel caso di “Luck and Strange”, sono arrivate buone idee».

C’è qualche musicista emergente che attrae la sua attenzione?
«Ascolto pochissima musica, non mi interessa la “spazzatura” che viene pubblicata oggi. Quasi sempre è così, e non mi va di perdere tempo».

Allora la faccio tornare al novembre 1985. Lei suonò nella Deep End di Pete Townshend a Brixton , sotto quel palco c’ero anch’io. Townshend ha da poco ripubblicato quel concerto in un cofanetto. Che ricordi ha?
«Ho un bellissimo ricordo, credo che Deep End sia stato il momento più fulgido della carriera solista di Pete. Fu molto divertente affrontare i classici rock degli Who e stimolante collaborare con ottimi musicisti».

Tra le altre sue collaborazioni più riuscite, c’è stata quella con Paul McCartney.
«Ho sempre amato i Beatles, non solo:all’inizio, quando da ragazzino stavo imparando a suonare la chitarra, sono state le loro canzoni a insegnarmi tutto. Ancora oggi, se prendo una loro canzone, studiandone le parti capisco che lì dentro c’è tutto. i Beatles mi hanno fatto capire come si scriveva una canzone. Poter collaborare con Paul in studio, o raggiungerlo sul palco come è accaduto, è stato un grandissimo onore. Per me è uno dei più grandi musicisti che siano mai esistiti».

Lei è reduce da sei concerti al Circo Massimo, l’estate scorsa ha trascorso le vacanze con la sua famiglia a Venezia ed anche con i Pink Floyd ha tenuto concerti leggendari nel Belpaese. Cosa la lega all’Italia?
«Dell’Italia mi ha sempre interessato l’aspetto storico. Ho letto grandi autori del passato, studiato le vostre architetture, amo follemente visitare le vostre città d’arte. Suonare a Roma, al Circo Massimo, è stata l’ennesima esperienza fantastica».
E già si vocifera, come da antica tradizione floydiana – anche se Gilmour ancora non conferma – che prossimamente uscirà un film proprio sui live romani.

di Eleonora Bagarotti

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