“L’odio” di Kassovitz, dopo quasi trent’anni ancora shock in sala

Cassel allo specchio gioca a fare De Niro in “Taxi Driver”

“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”. L’inizio de “L’Odio”, opera seconda di Mathieu Kassovitz, vincitore della Palma d’Oro alla Regia al Festival di Cannes del 1995, è probabilmente uno dei più famosi incipit del cinema contemporaneo. La messa in scena frenetica delle ventiquattr’ore nella vita dell’ebreo Vinz (Vincent Cassel), del nero Hubert (Hubert Koundé) e dell’arabo Saïd (Saïd Taghmaoui), all’indomani degli scontri tra forze dell’ordine e civili dopo i quali un ragazzo del quartiere, Abdel, si ritrova in fin di vita a causa dei soprusi violenti della polizia, riesce a catturare l’energia di ogni singolo istante fino a renderlo universale. I tre, carichi di rabbia e con una pistola tra le mani, meditano su come avere giustizia. Una vicenda raccontata con una tenuta stilistica e narrativa straordinaria che, a trent’anni di distanza, trova echi e riverberi nel nostro presente.

Attraverso un linguaggio (visivo e verbale) autentico e urbano, Kassovitz spalanca l’orizzonte di un mondo nuovo, trasformando la realtà delle banlieu degli anni ‘90 in un susseguirsi di idee continue e di narrazione che rinascono a ogni scena e frantumando con un martello l’afflato romantico che da sempre avvolge Parigi come un profumo scadente. “L’odio” racconta perla prima volta il suburbano delle grandi città senza il peso della morale né l’aridità della mera denuncia, arrivando a divincolarsi in modo stupefacente anche dai canoni dell’esaltazione del tragico alla Scarface. Vinz è la furia, Hubert la lucidità, Saïd la beffa, e il loro racconto è una via crucis dove il connubio tra grottesco e cronaca crea una nuova, irripetuta, dimensione di vitalità fatta di forza visiva, di tumulto, di azione.
Ascendenze e discendenze: da dove viene “L’odio”? Viene da Scorsese e De Palma, dal black cinema di Spike Lee e John Singleton (”Do the right thing!” è del 1989 e “Boyz n the hood” del 1991), dalla cultura hip hop, dalla storia vera di un ragazzino ammazzato dalla polizia durante una rivolta nel 1993. E dove è arrivato? “L’odio” ha dato una voce, un corpo, dei gesti, un contesto, un momento di cinema puro, ad un intero gruppo sociale di invisibili, irrappresentabili fino a quel momento. E dallo schermo quel film di finzione diventato un cult intergenerazionale in grado di impattare profondamente sulla cultura contemporanea è arrivato nelle nostre strade, è cronaca di ieri e di oggi e sarà quella di domani, ed è diventato “Detroit” di Kathryn Bigelow del 2017, “Les Misérables” di Ladj Ly del 2019, Athèna di Romain Gavras del 2022.


Il film è stato pensato in bianco e nero anche per avere un maggior controllo sull’omogeneità delle immagini. All’epoca si trattò di una vera e propria sfida: una scelta non convenzionale e perfino rischiosa dal punto di vista commerciale, tanto che i produttori vollero che venisse girato a colori per avere una copia da trasmettere in televisione. Il successo del film però fu tale che l’idea venne accantonata e la versione a colori non vide mai ufficialmente la luce, pubblicata unicamente come extra di qualche edizione home video. Per conoscere meglio la realtà raccontata dal film, regista e attori vissero diverse settimane nel quartiere dove è stato poi effettivamente girato, a contatto il più possibile con la comunità locale per assimilare al meglio l’attitudine, lo slang, le tensioni palpabili.
Considerato il budget ridotto e i rischi derivanti da riprese troppo frammentate, il motto del regista Mathieu Kassovitz era “ogni scena un’idea”, così da avere del materiale sicuro e definito e ridurre al minimo lo stress e i dubbi al montaggio. Ogni scena del film è infatti composta da fluidi long take e da veri e propri piani sequenza, elementi riconoscibili e costitutivi dello stile del film.
“L’odio” torna in sala restaurato in 4K partendo dai negativi originali con la supervisione del direttore della fotografia Pierre Aïm e approvato dal regista, grazie a Minerva Pictures con Rarovideo Channel e alla distribuzione Cat People. A Piacenza il film sarà proiettato stasera al cinema Corso alle 21.

di Barbara Belzini

© Copyright 2024 Editoriale Libertà