Mettiamo un pizzico di Giuseppe Verdi nel nostro futuro

I 120 anni dalla morte di Giuseppe Verdi li abbiamo celebrati, sul quotidiano “Libertà”, lo scorso 27 gennaio. Eppure, e non solo per la pandemia che ancora impedisce la riapertura dei teatri, le celebrazioni verdiane scorrono lungo tutto l’anno.

Tra le iniziative curiose che ho ritrovato in questo periodo, c’è un libretto illustrato, rivolto ai bambini e realizzato dal Teatro Regio di Parma (ce n’è un altro dedicato a Maria Callas, che consiglio). S’intitola “Giuseppe Verdi, il cigno di Busseto” e raccoglie i disegni di Patrizia Barbieri, che ne ripercorre graficamente la storia, raccontandola ai più piccoli. La pubblicazione, realizzata anche in inglese, l’ho donata ai nipoti di un amico londinese, ma una copia in più l’ho presa per me.

In generale, trovo incantevole ogni piccolo oggetto nato per ricordare i grandi artisti (alla Fondazione Leonard Bernstein di Brooklyn ho fatto incetta di biografie, tazze, penne stilografiche e quant’altro). In questo caso, colui che tanto ha saputo raccontare in musica l’Italia ed anche – questa è la mia speranza – rappresentare tuttora una sorta di bandiera, un monito per quella che potrebbe essere la nostra ripartenza. Mi riferisco al mondo dello spettacolo, messo in ginocchio dalla pandemia, e alla società intera. Come ben scrive, con ampia conoscenza e graffiante ironia, il collega Alberto Mattioli nel suo “Meno grigi più Verdi. Come un genio ha spiegato l’Italia agli italiani”, edito da Garzanti e subito divenuto un best-seller che è proibito non possedere in libreria.

Nel giorno dell’anniversario della morte di Verdi, di cui “Libertà” diede notizia all’alba del 1901 battendo sul tempo i media di tutto il mondo (in virtù del fatto che il Maestro, pur essendo morto a Milano, viveva da tempo nel Piacentino, essendo profondamente legato alle origini materne e paterne), io ho semplicemente postato il Preludio del I Atto de “La Traviata”. Continuo a pensare che, in ambito sinfonico, non esista nulla di più struggente né, al tempo stesso, completo nell’introdurre un’opera solo apparentemente “semplice”, nell’immensità della sua melodia eterna.

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