Passeggiando per New York tra i fantasmi degli artisti
Sono trascorsi 20 anni dall’11 settembre. Da musicofila, a New York ho trascorso i momenti più belli della mia vita – credetemi sulla parola. Ricordo ancora una passeggiata a Lafayette Street. Un angolo che forse tutti hanno attraversato. Perché anch’io ho già passeggiato a Lafayette, dopo la morte di David Bowie. La prima volta era però di giorno, con i rumori del traffico e la confusione che distrae un po’ le nostalgie. L’ultima volta era al tramonto, con il flusso del grande rientro già passato e la zona della casa di David, in particolare, tranquilla.Non ce l’ho fatta a non provare un brivido di tristezza lungo lo stomaco. Avete presente? E ho ripensato a un’altra cosa. Al Dakota, associazione talmente ovvia che per un secondo ho pensato alla bellezza del ritrovarsi di David e John, assieme da qualche parte
Io non sono mai riuscita a fotografare il Dakota. Strawberry Fields sì, il Dakota mai. Credo che ognuno reagisca a suo modo, in questo frangente. Io e mio figlio Pietro, ci siamo passati davanti in più occasioni, provenendo dalla Amsterdam verso Central Park. L’edificio è appena stato ristrutturato – una parte è ancora coperta – e nonostante tutto, un occhio è scivolato per un secondo nell’atrio. Quell’atrio buio, anche di pomeriggio e con le lampade accese, che si impone sempre allo sguardo, nonostante le guardie all’entrata. E ho provato lo stesso brivido lungo lo stomaco. Per questo, probabilmente, siamo poi passati a Strawberry Fields, dove Pietro, con la sua innocenza, mi ha detto: “Mamma, ci sono i fiori per John Lennon. Perché tu non li hai portati?” “Hai ragione” ho risposto, sfilandomi un anello e mettendolo lì per John, accanto a un braccialetto colorato. E’ un anello che acquistai, ironicamente, alla boutique del MoMa nel 2000. Un anello di plastica rosa, a forma di palla di neve e infatti dentro c’erano acqua e polverina che si muoveva ogni volta che lo scuotevi. Valore pressoché nullo, ma chi mi ha frequentato me lo avrà visto indossare quasi quotidianamente.
Immagino che il mio amatissimo anello sia finito nella spazzatura o nelle tasche di qualche poveraccio (se dotato di sense of humour). Di sicuro a John non importerà, se non altro perché di me, semmai, ha capito tutto sin dall’inizio anche senza conoscermi. Ma a Pietro, quel gesto è rimasto impresso e infatti ancora oggi me lo ricorda.
Non so dare un significato preciso sul perché mio figlio mi abbia “spinta” a compierlo, non ho avuto il tempo di pensarci e non lo farò adesso.
Rientrando in metro a Brooklyn, quella sera ho letto un post sulla figlia, allora dodicenne, di Chris Cornell, che cantava un omaggio al padre. “Troppo presto” ho pensato, non per giudicarla – ci mancherebbe – ma perché, da giovane orfana, conosco benissimo i tempi che ha avuto il mio dolore prima di assumere una forma di senso. Un pezzetto di puzzle nero e spigoloso che però, una volta trovato, s’incastra nell’insieme delle altre cose ed anche se rimarrà nero, tu puoi andare avanti. Certo, puoi decidere di lasciare un buco illudendoti che sia possibile dimenticartene, ma è come rifidanzarti due giorni dopo che ti ha lasciato l’uomo che ami: stai solo facendo una sciocchezza che rallenterà la guarigione e ti condurrà ad altra sofferenza. Perché una delle poche regole, indissolubili di questo Great Wide Open, è che il dolore ha i suoi tempi e ti fotte due volte perché li decide lui.
Poco fa, chattando con un amico cantautore si accennava al dolore come fonte d’ispirazione. E’ verissimo, forse per questo, anche continuando a parlarne, vince sempre il suo mistero. Alla fine, fa scaturire tantissima arte che altrimenti non avremmo. E noi non abbiamo ancora scoperto le sue regole. Secondo alcuni, quando sui social si esprime cordoglio per gli artisti scomparsi si diventa un po’ ridicoli. Le persone sagge sostengono che bisognerebbe pensare di più ai propri cari – come se non potessero coesistere l’una e l’altra cosa. Io non so dire ciò che è giusto, mi limito ad esprimere considerazioni personali. L’unica cosa che capisco, avendola vissuta, è che certi artisti, per tanti sono stati sicuramente dei surrogati paterni, indicandoci il passo verso ciò che stavamo per diventare. E se questo non è amore, allora non so cos’altro mai possa esserlo.
Ci sono poi varie sensibilità. Una persona vicina agli Ono Lennon, mi confermava ciò che avevo colto dalle ultime foto di Yoko ossia che ultimamente esce poco e in sedia a rotelle. Immaginarla scendere con il nugolo di beatlesiani che le scatta fotografie mi fa un po’ male. In compenso, sapere che Sean ha cambiato residenza e vive ormai up to the river (magari lo sapevate già, io no) mi ha dato un senso di sollievo. Non amo il Dakota, lo avrete capito ormai…
E trovo atipica Lafayette Street. Quando Bowie era vivo, mi capitò di pensare “certo, la zona è fichissima e dentro la casa sarà una reggia, ma la strada è trafficata e poteva trovare sicuramente un angolo migliore, uno come David”. Quella sera, invece, mi si è acceso un lume (con imperdonabile ritardo sui tempi) e ho pensato che Lafayette Street, per Bowie, era perfetta. Meno “scontata” di altri angoli, più vicina – per certi aspetti, prendete l’esempio con le pinze e usate un po’ di fantasia – alla “sua” Brixton. All’incessante ricerca del suo sguardo, specialmente interiore. Certo, uno come Lou Reed aveva scelto le viuzze rustiche e poetiche del Village, mica Lafayette. Tutto torna. Ho ritrovato un articolo del New York Times sul “David newyorkese” e rileggere delle sue passeggiate nel quartiere è stato come infilare in bocca un dito colmo di panna montata dopo un lungo pianto da bambina. Un paio d’ore prima, stavo descrivendo in un messaggio a una persona cara la carica di energia positiva che si riceve anche solo rimanendo seduti su una panchina di Washington Square. Che ci crediate o meno, è un luogo di luce penetrante e il merito, lo sappiamo, è di chi ci è passato prima. Gente con il sole nell’anima.
Ho voluto ripercorrere Lafayette Street, pur sapendo di non voler scattare alcuna fotografia a una certa porta. E poi risedermi su una panchina accanto alla fontana e immaginare che un po’ di energia positiva potesse arrivare dentro al cuore di Toni Cornell, che quella sera, a soli 12 anni, affrontava (truccata di tutto punto) un pubblico oceanico cantando una preghiera di Leonard Cohen per il suo papà. Per comprendere ciò che le ha strappato via il padre, ammesso esista una risposta completa, ci vorrà il lungo tempo delle lacrime. Quel tempo senza regole, che attraversa per forza il Paese della solitudine. Anche a 12 anni. Non chiedetevi come faccio a saperlo. Magari è per questo che, nel mio piccolo, anch’io come John e David, ogni volta mi sento una figlia orfana che solo a New York ritrova le parole del suo antico dolore.
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