Paul McCartney, il backstage di un’intervista sotto l’albero
La sorpresa del Natale 2020, un anno da dimenticare, proviene da Londra. Curiosamente, la Brexit non intacca i forti legami umani e professionali costruiti nel luogo dove mi sento sempre a casa, così riesco a intervistare Paul McCartney. In Italia, con un nuovo album all’orizzonte, tutti scrivono di lui, recensiscono, riprendono comunicati. Paul sembra inaccessibile, invece non lo è. E neppure le sue nuove canzoni.
McCartney III è un album ottimista, che viaggia in senso contrario alla pandemia, nonostante sia stato concepito durante il lockdown, tanto che Paul suona tutti gli strumenti. E’ l’immagine straordinaria che, più di altre, mi accompagna nell’attesa di sentirlo al telefono (3.30 pm, ora newyorkese perché Paul è negli States; in realtà lo sentirò alle 5.30, ma alla fine che importa). La sera prima, Paul era ospite di Jimmy Fallon e, dal suo salotto, negli ultimi giorni si è dedicato con generosità e ironia alla promozione del nuovo album.
Continuo, anche in questo istante, a immaginare questo raffinato Signore 78enne che, in pieno lockdown, si diverte a fare ciò che ha sempre fatto: essere creativo, scrivere canzoni, scovare melodie, lanciare messaggi, omaggiare i ricordi. Non solo, Paul lo fa grondando energie positive, il che è davvero bellissimo, anche da ascoltare. Non è un caso se, a Natale, con McCartney III sia arrivato primo in UK, ed era da più di trent’anni che non succedeva.
Non ho pregiudizi, neppure aspettative. Solo entusiasmo. C’è un’unica persona, qui in città, da cui posso correre a dare la notizia in anteprima ed è il mio amico Alberto Dosi. “Alb” suggerisce, incalza, raddoppia il mio entusiasmo. A lui, soprattutto, si deve il merito di aver spesso trasformato Piacenza in una città (anche, in parte) beatlesiana, tra mostre ed eventi che hanno colorato inverni nebbiosi, nel segno di una musica straordinaria e di un messaggio di pace e speranza senza tempo.
Ogni volta che incrocio Paul, ricordo quando lo vidi per la prima volta. Avrò avuto 13 o 14 anni e lui usciva dall’Mpl, il suo ufficio a Soho Square. Mi sembrava l’uomo più bello del mondo, e probabilmente all’epoca lo era. Nei miei anni londinesi, più spesso ho conversato con Linda Eastman, sua prima moglie e nota fotografa (a proposito: non continuate a dire che è parente con quelli della Eastman Kodak, che fate brutta figura: in realtà, lei proviene da una famiglia ebrei russi emigrati a New York e suo padre era un affermato avvocato). Linda era una donna, e una madre, eccezionale, di sicuro il più grande (e forse unico vero) amore di Paul, che le fu accanto anche quando morì di cancro al seno, nel 1998.
L’ultimo incontro con Macca l’ho avuto a Bruxelles, nel dicembre di 11 anni fa, quando lanciò al Parlamento Europeo il “Meat-Free day”, che da tempo lo vede impegnato sul fronte ambientale, anticipando di decenni Greta Thunberg. Ancora prima, nel 2001, partecipai alla conferenza stampa che tenne a Milano per presentare la compilation Wingspan. L’ho incrociato altre volte, e naturalmente ai concerti, ma senza mai parlarci e quindi non vale.
Durante la nostra intervista, Paul è stato spontaneo e sincero, ha parlato del nuovo album, dell’amicizia con Ringo, della presenza di George e di John, benevoli fantasmi d’amicizia e di note che, come l’angelo invisibile di Wim Wenders nel Cielo sopra Berlino, gli danno una mano quando registra. Se pensate possa interessarvi, potete scaricare l’edizione del 24 dicembre 2020 del quotidiano Libertà (anche in App) oppure acquistare la sola pagina in Pdf.
L’impressione è che Paul sia uno di noi, eppure non lo è perché è un genio musicale straordinario, di quelli che nascono ogni 100 anni – ma secondo me come lui non ne nasceranno più. E dall’alto, anzi dall’altissimo, la cosa stupefacente è che Paul ti fa sentire, mentre parla con te, l’unico soggetto degno di nota. Questa è la sensazione che mi ha sempre dato: la signorilità, ma anche la capacità di concentrarsi nell’istante, dando peso e ascolto alla massima potenza a chi si trova davanti e a ciò che sta facendo.
E se prima che risponda all’altro capo del telefono mangio una decina di mentine, finita l’intervista bevo un bicchier d’acqua e penso a come questo mondo sarebbe migliore, se tutti noi ci sforzassimo di vivere pienamente l’istante, prestando attenzione al prossimo.
Il cuore batte un po’ più forte, credo di essere tornata adolescente e forse non è un male. Mi stendo sul letto e alzo le gambe lungo la parete. Ascolto il rumore della nebbia padana, penso a quanto sarebbe bello rincontrare Paul, rivederlo in concerto senza la pandemia. Immagino a come, in un modo o nell’altro, in un’altra vita sarei sicuramente riuscita a parlare con il mio adorato John, ad ascoltare la sua voce, a rubare i suoi respiri come le canzoni che tengo sempre accanto: il fantasma di Lennon è anche il mio angelo di Wim Wenders.
Le luci dell’albero di Natale formano disegni sul soffitto. Chiudo gli occhi e mi ritrovo in un Octopus’s Garden. Non ricordo più chi ha detto che “quando la vita è triste, ci sono sempre i Beatles”. Ha un sacco ragione.
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