“Quarto potere”, splende nelle sale il capolavoro che ha cambiato il cinema

Grazie a I Wonder Classics, la divisione di I Wonder Pictures dedicata alle grandi opere del passato, torna in sala restaurato in 4K “Quarto Potere” (“Citizen Kane”) di Orson Welles, del 1941: rivoluzionario per forma e contenuto, girato in un bianco e nero espressionista con inquadrature azzardatissime, il film è la storia di una ricerca, di un senso, del significato ultimo della vita di un uomo potente che muore solo, in una residenza lugubre zeppa di opere d’arte.

“Quarto Potere” si apre e si chiude allo stesso modo, con il cartello “No trespassing”, che ci tiene lontani dalla Xanadu di Kane anche quando sembra invitarci a guardare dentro: imponente architettura gotica avvolta nella nebbia, Xanadu è un luogo magico e tragico, “il monumento più costoso che un uomo abbia innalzato a sé stesso”, proprio come il castello di William Randolph Hearst, uno dei padri fondatori del giornalismo scandalistico statunitense al quale palesemente si ispira il plot.

Il film inizia con Kane che muore e lascia cadere una palla di vetro con la neve, che subito riflette al contrario l’immagine dell’infermiera presente nella stanza, un’inquadratura escheriana che apre una nuova finestra/dissolvenza nella mente dei protagonisti. Da qui comincia l’indagine sulla vita di Kane condotta dal giornalista Jerry Thompson, che non si vede mai in volto: Thompson cerca una verità impossibile, una ricostruzione che non è lineare, dove lo stesso episodio viene narrato più volte da diversi personaggi, a rimarcare la finzione visibile della narrazione.

E poi è tutto un susseguirsi di scene magnifiche e memorabili: il piccolo Charles sullo sfondo incorniciato da una finestra che gioca nella neve mentre la madre decide di affidarlo a uno sconosciuto, il giornalista che consulta il diario segreto del banchiere che ha allevato Kane illuminato dall’alto con una luce quasi liturgica, il deterioramento del primo matrimonio condensato in una serie di scene a colazione, l’iconografia nazista della campagna elettorale, i titoli del giornale in caso di sconfitta che sembrano dettati da un contemporaneo Donald Trump, la casa enorme e vuota dove la seconda moglie compone i suoi puzzle, dove i coniugi vivono circondati da testimoni silenziosi, draghi, statue, gargoyle, l’intervista con il suo ex migliore amico in sanatorio, e quell’inventario conclusivo con il carrello che indietreggia a mostrare la smisurata collezione di Kane, la vanità di quell’accumulo, le scelte arbitrarie di quello che si deve ricordare, una sequenza che ritroveremo citata, con analogo significato, negli ultimi frame de “I predatori dell’arca perduta”.

Solo allo spettatore sarà permesso, alla fine, uno sguardo alle sue ultime parole, a Rosebud, che non è una persona, che non è il grande amore di tutta la vita, ma è una slitta, quella che Kane aveva da bambino, prima che sua madre decidesse di mandarlo via dalla loro la povera casa per iscriverlo in un collegio esclusivo.

Ma nella ricostruzione della biografia di Kane è davvero importante, e risolutivo, scoprire cosa significa Rosebud? Se seguissimo le tracce dell’indagine potremmo davvero concludere che lo spartiacque (il trauma) è stato quel momento (quella separazione)? Rosebud rappresenta l’infanzia, la madre di Kane (e la madre di Welles, morta quando lui aveva nove anni), la felicità? Era questo che interessava a Welles? O invece voleva trascinarci nel flusso delle immagini e svelarci squarci della vita del suo protagonista a mostrarci che per quanto si possa scavare il senso ultimo dell’esistenza di qualcuno rimane inconoscibile?

Pensiamo davvero di poter trovare la Verità nell’opera di un uomo diventato famosissimo per aver ingannato tutta la popolazione degli Stati Uniti fingendo un’invasione aliena mentre legge La guerra dei mondi di H.G. Wells alla radio? Ce lo dice lo stesso Welles in questo film: “Una parola non spiega la vita di un uomo”

“Citizen Kane” è davvero un film sul potere, ma non esattamente sul potere della stampa. È un film muscolare e machista, ambientato quasi totalmente in interni, in spazi ristretti, costretti dai soffitti (chi lasciava in scena i soffitti prima di Welles?), dalle soglie, dagli stipiti, dai triangoli di luce.

Charles Foster Kane (e Welles dietro e dentro di lui) sgomita per uscire dalla cornice dello schermo, per invadere tutto lo spazio e mangiarsi gli altri personaggi, divorato a sua volta dall’idea ossessiva di costruire qualcosa di grande, la casa-mausoleo, il teatro dell’opera, di lasciare impronte, memorie, di costruire qualcosa, qualsiasi cosa, in grado di superare un oggetto da due soldi, la piccola palla di vetro con la neve, e di non riuscirci mai.

Il film sarà in programma in versione originale sottotitolata oggi al Corso (alle 17 e alle 21) e martedì 2 aprile (alle 21) al Jolly2 di San Nicolò.

di Barbara Belzini

 

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