Stewart Copeland presenta la sua nuova rock opera “The witches seed”, venerdì sera in scena agli Arcimboldi di Milano

Se siete tra i delusi che si aspettavano di applaudire Bruce Springsteen sabato e lunedì al San Siro, dopo la cancellazione dei due concerti per motivi di salute del Boss sappiate che c’è un altro appuntamento di prestigio che merita grande attenzione venerdì sera agli Arcimboldi. Si tratta della rock opera immersiva di Stewart Copeland, l’ex batterista dei Police, compositore, produttore, direttore d’orchestra. Il titolo è “The witches seed” (tradotto letteralmente, «Il seme delle streghe») e già da solo, promette sensazioni forti.
A parlarcene, in collegamento da Los Angeles, poco prima di atterrare a Milano, è lo stesso Stewart Copeland. Considerato uno dei migliori batteristi al mondo (il suo drumming secco e veloce lo distingui subito), lui è uno di quei musicisti che non si è fermato sul comodo boudoir dello showbusiness, che – come rileva lui stesso – va per la maggiore tra i suoi coetanei. Cellulare in mano, Copeland gira per il suo studio e la sua casa. Ce ne mostra tutti gli angoli, illustra gli strumenti musicali, i cimeli, l’elettronica e «il regalo che mi ha fatto ieri il mio caro amico Eddie Vedder (il frontman dei Pearl Jam, ndr)».

Ci racconti…
«Eddie è venuto a trovarmi e mi ha donato l’armatura del film “Ben-Hur: A Tale of the Christ”, quello originale degli Anni 20 perché ho diretto la Radio Symphony Orchestra al Konzerthaus di Vienna nella colonna originale di quel film. Così, lui l’ha recuperata per me: non è bellissima?».

La è! Anche tralasciando le sue eccezionali performance dal vivo e in studio, il passato nei Police, l’entrata nella Rock and Roll Hall of Fame, lei è un compositore e un musicista che si è speso in molti ambiti, tanto da essere applaudito in Austria, dove notoriamente chi non è considerato un musicista con i fiocchi viene estromesso.
«Di fronte a questa bella premessa, posso solo dire una cosa: per me la musica è sempre stata un mondo infinito, da esplorare senza sentirsi mai arrivati. Mi interessano i ritmi, i suoni, le collaborazioni, le diverse culture… bisogna continuare a studiare e a sperimentare, a vivere tenendo la mente aperta su tante cose del mondo, non solo quelle che ti hanno già portato al grande successo. Ci sono musicisti come i Deep Purple, Steve Vai e compagnia bella, poi ce ne sono altri come Tom Waits e Stewart Copeland… un’altra “combriccola”».

Un aspetto in comune di quest’altra “combriccola” è l’attività di autore di colonne sonore, nel suo caso molto importanti, a partire da “Rumble Fish”, il cult di Coppola del 1983, che ha fatto subito capire quanto ampio fosse il suo orizzonte, anche sperimentale, al di là del suo amore per il Jazz e della sua storia con i Police.
«Il cinema mi interessa molto, ma a una condizione: che al centro della storia, la mia musica abbia un ruolo di spessore, di senso. Se non c’è sintonia su questo aspetto con il regista, allora possono propormi anche tantissimi soldi, dirmi che nel cast c’è Tom Cruise, Jennifer Lopez, chi gli pare… ma a me non interessa. Se non c’è considerazione per la musica, a Stewart Copeland, dei soldi, non frega nulla. Anche perché, arrivati al punto da poter scegliere liberamente, non capisco chi invece continua a rifare le stesse cose. Alcuni miei colleghi lo fanno regolarmente, io mi annoierei a morte. Ci vuole un senso, dentro le cose che si fanno, altrimenti si smette di essere musicisti e si replicano le stesse formule all’infinito. La ripetitività è pessima».

Veniamo a “The witches seed”. Com’è nata questa rock opera?
«Sono entusiasta di poterla portare a Milano, in Italia, dove vengo spesso e dove ho vissuto esperienze incredibili, tra le altre la Notte della Taranta, che hanno fatto nascere belle amicizie. La trama è forte: si svolge in tempi arcaici, ma il tema della forza delle donne, considerate streghe nell’antichità, e della loro rivoluzione contro un mondo che le vuole abbattere è attuale. E’ un tema che sento, sia come uomo che essendo padre di figlie femmine. Alcuni brani sono stati scritti da Chrissie Hynde dei Pretenders e interpretati da lei, ma con l’orchestra sinfonica, in forma operistica, la sua voce non è adatta. Così, abbiamo pensato a Irene Grandi, che è davvero fantastica e intensa nel ruolo di Isabetta, colei che guida la battaglia delle altre contro un mondo misogino che vuole abbattere le donne, la loro forza e la loro libertà. Sono soddisfatto dalle prove con il cast, i ballerini e l’Orchestra Filarmonica Italiana».

Ha da poco girato un documentario a puntate dedicato alla musica e all’antropologia per la BBC.
«Non parlo solo di musica in senso stretto perché non esiste, a mio avviso, una cultura musicale che prescinda da una cultura generale. E mi riferisco alle radici, alla filosofia, all’antropologia… questo aspetto mi sta molto a cuore. Chiedo ad alcuni colleghi se si domandano mai cosa stiano facendo, quando compongono una canzone. L’ho chiesto anche Sting… lui ha guardato nel vuoto (lo imita in modo ironico guardando il muro, ndr) e mi ha detto “A dire il vero, io non me lo chiedo”. Non è l’unico, in tanti non cercano un senso nel loro essere musicisti. Io penso sia un gran peccato non farsi domande…».

di ELEONORA BAGAROTTI

 

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