Strappare lungo i bordi con un ovosodo in gola
Per quelli che sono troppo pigri anche per leggere i fumetti è arrivata su Netflix “Strappare lungo i bordi”, la serie animata di Zerocalcare. La trama ripercorre la falsariga di uno dei suoi libri più famosi, e per chi conosce anche superficialmente l’universo del fumettista romano, sarà tutto un ritrovare personaggi, situazioni e storyline già note. Eppure questi piccoli episodi da 15-20 minuti fanno ancora ridere, e fanno ancora piangere: Zero, Sarah e Secco fanno un viaggio in treno mentre Zero Sarah e Secco fanno un viaggio nel tempo, mentre Zero continua a fare infinite digressioni per non pensare a dove stanno andando e da dove stanno venendo.
Zerocalcare ha 37 anni, non è un pischello, e se volete questo è l’ennesimo racconto (anzi ri-racconto) di una storia di formazione, però allo stesso tempo non è esattamente così: a differenza di altri prodotti derivati meno riusciti (non parlo del film, di quello proprio non ne parlo) questa miniserie funziona. Funzionano le voci (sempre la sua per tutti i personaggi, a parte l’Armadillo/coscienza/ che è Valerio Mastandrea), la musica (da Tiziano Ferro a Ron ai Bronski Beat), le citazioni (bisogna vederla quella seconda stagione di Sense8 eh), i mille dettagli dal salvaschermo del cellulare ai nomi sui citofoni e tutte quelle cose che fanno impazzire i fan.
Ma soprattutto funziona quel senso universale lì, di quando stai guardando qualcosa che hai conosciuto, quel senso di vuoto, quell’ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, quell’inadeguatezza, e poi quelle palate di saggezza della giovane Sarah prima e della Sarah adulta poi.
Ma di cosa parla “Strappare lungo i bordi”? D’amore, di speranza, di rimpianto, di senso di colpa (di tantissimo senso di colpa), di paure, di millenni di dominio maschile costruito sul vittimismo piagnone, di destino, del manuale del maschio alfa, di quanto sia faticoso scegliere se ordinare sempre la stessa pizza o per una volta provarne una diversa, di quella sera in cui ti pijava bene che non è arrivata mai, di nevrosi, di ricordi, della maledizione di Carmen la zingara, di un dentista del 1989, di precariato, di sogni distrutti, di solitudine, di violenza, di depressione, di disperazione, di morte.
Del fatto che non puoi tenere in mano lo stesso foglietto per dieci anni. Di quando le persone diventano anche roba nostra. Di cicatrici che non passano. Di accettare che non ci faranno mai giocare nella squadra di quelli ordinati e pacificati. Di come tanti foglietti, se li bruci tutti insieme, possono scaldare.
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