The Umbrella Academy: una famiglia disfunzionale di super eroi

Dobbiamo pur ingannare il tempo aspettando le ultime due puntate di “Stranger Things” e con questo caldo soffocante non c’è niente di meglio di un prodotto veloce, zeppo di colpi di scena e scene d’azione di grande impatto e con una colonna sonora accattivante come “The Umbrella Academy” (su Netflix).

La serie tratta dai fumetti sceneggiati da Gerard Way e disegnati da Gabriel Bá, racconta la storia di sette fratelli e sorelle con poteri straordinari che si ritrovano dopo anni di lontananza al funerale del padre, il misterioso imprenditore Reginald Hargreeves, che li ha adottati tutti alla nascita, il 1 ottobre del 1989. La reunion scatena rivelazioni sconvolgenti e la minaccia di un’Apocalisse che potrebbe distruggere il genere umano. Arrivata alla terza stagione, la serie continua a riproporre il medesimo meccanismo narrativo: per salvare il mondo i fratelli viaggiano nel tempo (grazie ai poteri di Five, un uomo anziano intrappolato in un corpo da ragazzino, e alla Commissione che vigila sul tempo, che ricorda la TVA di Loki), i fratelli si avvicinano e si allontanano, una nuova Apocalisse incombe.

Dopo aver salvato il mondo nella Dallas del 1963 (ma senza essere riusciti a impedire l’assassinio di Kennedy), gli Hargreeves nella terza stagione, Hotel Oblivion, tornano al presente e scoprono di aver alterato la linea temporale. Chi ne esce devastata è Allison, che ha abbandonato il marito del 1963 per tornare dalla figlia Claire nel 1989, salvo scoprire che Claire non è mai esistita: questo innesca la sua furia nei confronti di Viktor (Elliot Page, che nella prima puntata rivela la sua transizione con una leggerezza che dovrebbe essere normalità, responsabile della minaccia delle Apocalissi delle prime due stagioni. I fratelli scoprono anche che in questa nuova realtà il padre, deluso dal loro incontro nel passato, non li ha mai adottati, ma ha sette figli diversi, la Sparrow Academy, che si sono rivelati meno problematici e più orientati all’obiettivo.

 

L’incontro tra le due famiglie fa emergere l’altro conflitto della stagione, intorno al quale, all’interno dell’Hotel Oblivion, va in scena per la terza volta lo schema narrativo dell’Apocalisse imminente. Ma se non brilla per originalità nella costruzione della storia, “The Umbrella Academy” trova i suoi punti forti in alcuni personaggi dirompenti (il giovane vecchio Five interpretato da uno straordinario Aidan Gallagher, il drug addict che vede i morti Klaus, al quale Robert Sheehan regala parti della follia già presente in un altro disagiato con superpoteri, Nathan Young dei “Misfits”, la coppia composta da Lila e Diego), nella fantastica libertà narrativa consentita dalla possibilità di viaggiare nel tempo (e dalle sue conseguenze, come il paradosso del nonno o la costante, come in “Lost”, che sui viaggi nel tempo e sulle realtà alternative ha costruito la sua fortuna), che permette di ripartire da capo a ogni stagione, nei “daddy issues” che tutti i personaggi si portano dietro incarnato dall’onnipresente Reginald Hargreeves, e in una serie di sequenze surreali e divertenti, come il bachelor party alla fine del mondo, la sfida tra le due famiglie a passo di danza il percorso di riavvicinamento tra Klaus e suo padre a colpi di “Bus-ball”, la conversazione tra Five e il padre seduti davanti all’hotel, su quel che resta del mondo.

E in mezzo guardiani usciti da Resident Evil, madri-robot, fratelli-calamaro, tradimenti e confessioni. La fiducia è un capitale prezioso e su questo la famiglia disfunzionale continua a sbriciolarsi e a ricompattarsi, fino a litigare sull’opportunità o meno di salvare il mondo, ancora una volta, o di festeggiare il tempo che rimane bevendo fino a sfinirsi urlando Viva l’Apocalisse.

 

 

 

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