The Who raccontati dalla cantautrice Cristina Donà, ospite del Festival del Pensare Contemporaneo
Oggi ospitiamo, con piacere, uno scritto della cantautrice Cristina Donà, raffinata protagonista musicale dell’apertura della prima edizione del Festival del Pensare contemporaneo di Piacenza, sul gruppo The Who, al quale è dedicata la mostra in corso fino al 5 novembre alla Galleria Biffi Arte.
Confesso: uno dei motivi principali che mi ha spinto al concerto degli
Who all’Arena di Verona l’11 giugno del 2007, era vedere la faccia di
mio marito Davide, loro grande fan sin dall’adolescenza, nel momento
in cui se li sarebbe trovati davanti. Quando apparirono sul palco, il
commento, dopo un’apnea prolungata, fu “ma allora esistono
davvero”. Certo, ne mancavano due del gruppo originale, ma vedere
Pete e Roger a pochi metri di distanza era sufficiente per provarne
finalmente l’esistenza.
Fu un concerto epocale che mi piace ricordare e raccontare quando si
parla di live e di artisti ancora in grado di stupire.
Come molti sanno, il meteo fu decisamente poco generoso quella sera
ma se non fosse stato per la pioggia incessante, l’umidità e le
condizioni atmosferiche disastrose, probabilmente non avremmo
assistito ad un capovolgimento dei ruoli tra Daltrey e Pete.
La fortuna di avere un grande fan degli Who in casa mi ha permesso
negli anni di assorbire, anche indirettamente, molte sfumature del
lavoro di Townshend. Ho ascoltato i dischi e, ammirata, i provini
impeccabili pubblicati su “Scoop”. Arrangiamenti già definiti e precisi e
sopra quella voce capace di dire tanto, sicuramente molto di quello
che c’era bisogno di dire, apparentemente senza bisogno di altro o di
altri.
L’ Arena (sopra un momento del concerto in uno scatto del fotografo Filippo de Orchi) quella sera esplodeva di desiderio e dopo essersi visti quasi
portare via la possibilità di godere finalmente gli Who dal vivo dopo
quasi quarant’anni di attese, a causa dell’afonia di Daltrey, ecco che
Pete si presenta sul palco con un libro, il libro dei testi, dei testi scritti
da lui, ma quasi sempre cantati da Roger. “Vi spiace se canto io?”
Noooo!!! gli urla l’Arena. Da quella quarta fila in platea, dopo anni ad
apprezzare senza capire finalmente ho capito la sua grandezza, e
mentre Daltrey si limitava ad accompagnare il tempo con un cembalo,
Townshend rigurgitava energia a fiumi, cantando e suonando come
fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua. Il R’n’R può essere
solo questo. Cantava con una voce che sembrava rimasta esattamente
quella di un tempo.
Ma dopo quell’incredibile viaggio ce ne fu un altro che mi fece
scendere ancora più a fondo nella genialità di questo artista, di lui e
della sua band. Nel luglio del 2013 ebbi il privilegio di cimentarmi con
l’opera monumentale “Tommy”, grazie all’invito di Mario Setti,
direttore artistico dell’Estate Fiesolana, assieme ai bravissimi The
Waiting Room che la risuonarono per intero.
In quel periodo incominciai anche a leggere l’ autobiografia di
Townshend “Who I am”. L’eroe martire bambino, il ragazzo genio del
flipper di Tommy viaggiava in contemporanea con la vita di Pete. Ogni
canzone assumeva un significato concreto, ogni nota pesava come oro,
ogni brano così diverso dagli altri, ma in sintonia col tutto, costruivano
un panorama che prima non avevo notato. Quella varietà musicale e
poetica mi lasciò a bocca aperta. Mi innamorai di quell’opera e
m’inchinai definitivamente all’assoluta genialità di chi la pensò e la
scrisse e al coraggio di affrontare molti temi sino ad allora ignorati in
musica, come la violenza sui bambini, sui ragazzi.
Apprezzai la duttilità vocale di Daltrey all’interno di una complessa
rete di stati d’animo, l’indomabile apporto di Moon e la solidità
trasversale di Entwistle. Cantare buona parte di Tommy è stato
difficilissimo e gratificante. Ne sono uscita in estasi come davanti ad
un messia che ti prende per mano e ti scava la sua croce in fronte per
liberarti.
Ma se qualcuno mi chiedesse di descrivere esattamente cosa ho
provato, potrei solo rispondere “I Can’t Explain”.
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