The Who, the endless wire (il filo infinito)
C’è una cosa che gli Who non hanno perso, neppure alla soglia degli 80 anni. Si chiama energia ed è una cosa diversa dalla potenza (c’è anche quella, a livello di sonorità, in molti passaggi, ma non è la priorità e forse non la è mai stata).C’è un’altra cosa che gli Who non hanno perso, e non potrebbe mai accadrebbe: è la bellezza delle canzoni. Intime, scoperte come un corpo nudo nel caos del mondo, palpitanti come un cuore gettato per terra, magari calpestato, ma che grida “Sono vivo!“.
Queste righe non rappresentano una recensione, sono un bilancio emotivo e musicale di quel che ho vissuto, forzandomi un po’ (devo dire la verità) per andare a Firenze Rocks invece di limitarmi a una delle tante venue europee con ottima sonorità e aria condizionata. Il caos non è mai l’ideale, e non solo perché nel mio percorso ho dovuto affrontarlo in più occasioni, quindi oggi mi stanca parecchio. Non lo è per la resa musicale.
Eppure, l’altra sera a Firenze a superare il caos c’è stata quella cosa che tutti coloro che gli Who li conoscono, e li amano profondamente, sentono sulla propria pelle: il senso di comunità. Tra i fan, e soprattutto tra i fan e i musicisti.
E’ questo che gli Who hanno sempre trasmesso al loro “popolo”: il messaggio – chiaro, diretto e sincero – che senza il pubblico non sarebbe la stessa cosa. Non a caso (e ci dispiace per gli ottimi Rolling Stones) per una manciata di anni il gruppo veniva presentato come “The greatest rock’n’roll band in the world“. E non a caso, svariati decenni dopo, l’energia, the endless wire, colpisce ancora. Merito, indubbiamente, delle canzoni più intense che uno dei più grandi cantautori (compositori) del pianeta abbia mai scritto, lasciandole ai posteri. Perché sarà allora, e ne sono sempre stata convinta, che si coglierà DEFINITIVAMENTE la profondità armonica, i riferimenti debussyani, le progressioni wagneriane, il basso continuo del “Clavicembalo ben temperato” di Bach, la poetica, il decadentismo, la prosa psicanalitica condite da un mondo di unicità e carisma inconfondibili dell’universo Townshend.Il tutto, l’altra sera, con un Roger Daltrey in buona forma e l’ennesima ambizione, poi raccolta anche da altri gruppi, di far accompagnare il proprio repertorio da un’orchestra sinfonica: “E’ difficile – ha detto Pete dal palco – perché suonare con un’orchestra significa seguire regole molte precise, stare dentro a certi limiti, mentre gli Who si allargano, si amplificano, tendono a non averne”. Una dichiarazione onesta, che ci fa dire – l’ultimo “Live at Wembley” lo testimonia anche discograficamente – che non è un’orchestra a fare la differenza. Ma che, comunque, va bene che ci si perda ogni tanto – anche a causa di evidenti problemi tecnici (vedi considerazioni sopra a proposito di location più idonee). “1921” si raggiunge quasi alla fine della seconda strofa, le parole di “Eminence Front” (che sono la cosa più bella e graffiante del brano) si recuperano nell’antica memoria come le perle di una collana che improvvisamente si è rotta e allora ci si china cercandole nei meandri del tappeto.
Ma che importa. “Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia“.E tutto il resto, è The Who. Anche i brani più soft che permettono di riprendere fiato – i due ripescati dall’ultimo album “Who” – ma soprattutto il Greatest Hits, anche senza il bis di “My Generation” (che probabilmente, dato il caldo fiorentino e gli arrangiamenti più “colti“, non ci stava). Potremmo citarli uno ad uno, fino a quel funambolico finale che abbraccia forte “Who’s Next” e lì arriva il tripudio del pubblico che si amplifica, triplicandosi al grido di “Won’t Get Fooled Again” o al monito “Teenage wasteland, it’s only teenage wasteland“.
Il concerto, diviso in tre parti (la prima è una manciata di “Tommy” con gli orchestrali del Maggio Musicale Fiorentino diretti da Keith Levenson, che rientrano dopo una mezzora di Classic Rock in cui spicca l’intero gruppo, su tutti Zak Starkey), raggiunge l’apice con gli assaggi di “Quadrophenia“: un’opera che compie 50 anni e non solo non li dimostra, ma bella come lei non c’è mai stata nessuna. A testimoniarlo, nel folto pubblico, i tanti giovani, anche ragazzi, che ne conoscevano i brani a memoria.
“Sì, c’è speranza per il futuro” dice il mio amico Francesco, conosciuto ai concerti di Brixton nel 1985 e ancora mio amico fraterno. Penso abbia ragione. E gli Who, in questo miracolo, ci hanno messo lacrime e sangue. E’ per questo che noi li amiamo. In quella maniera speciale. Diversa da tutte le altre.
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