Top Gun: Maverick e il corpo ingombrante di Tom Cruise
Ne parlavamo da un paio d’anni e Tom Cruise è tornato rigorosamente in sala (“I make movies for the big screen” ha detto a Cannes) a frantumare record per i migliori incassi dell’anno (oltre i 9 milioni in Italia, oltre 750 milioni di dollari nel mondo, a insidiare “Batman” per poi mettersi alla rincorsa di “Doctor Strange in the Multiverse of Madness”.
Cruise è una superstar, e Pete “Maverick” Mitchell è stato il grande amore di tutta una generazione: i maschi si sono precipitati a comprare giubbotti e occhiali, le femmine hanno appiccicato poster e cantato take my breath awaaaaaaay con i lacrimoni, tutti i generi indistintamente si sono immaginati a correre sulla moto sullo sfondo di tramonti arancioni.
Io nel 1986 ero una ragazza triste e anche se ovviamente avevo visto “Top Gun” per completezza cinefila, preferivo “Il raggio verde di Rohmer” (ma anche “Highlander”): se devo però cercare una colonna sonora di quell’anno, sicuramente scelgo la versione di “Twist and Shout” di Ferris Bueller
Ma nel 2022, quando tutti i miei film preferiti sono filmacci d’azione o musical, cosa mi aspettavo da “Top Gun: Maverick”? Citazionismo, scene d’azione favolose e auto ironia. Che diamine, Cruise si prende in giro persino dentro i Mission Impossibile. Il citazionismo c’è, le scene d’azione favolose da far cadere la mandibola pure (aerei veri guidati dagli attori, jet veri guidati dai piloti), il corpo di Cruise sessantenne farebbe invidia a un quarantenne, ma è il corpo cinematografico di Cruise che viene celebrato qui ed è talmente ingombrante che l’auto ironia sta a zero. “Maverick” non è una storia classica di passaggio di testimone, non è “Rocky V” o “Creed”, dove l’eroe fa un passo indietro e diventa la guida, l’allenatore, il mentore. Macché. Cruise non ci sta a fare quello dietro le quinte e scalcia finché la missione-quasi-suicida non la guida lui.
A sessant’anni Pete “Maverick” Mitchell è ancora “solo” un ufficiale al servizio dell’aereonautica americana: nonostante tutte le decorazioni, è rimasto un pilota collaudatore dalla testa calda e lo ricorda a noi e a Ed Harris (sprecatissimo) nei primi dieci minuti del film (nel resto del film non esiste una disciplina militare e per tutta la missione-quasi-suicida siamo nella Casa delle Libertà nella versione di Corrado Guzzanti).
Al sessantenne testa calda che è il più bravo di tutti si aggiungono tre storyline: la missione contro Colui Che Non Deve Essere Nominato, l’inserimento, tra i giovani Top Gun, di Bradley Bradshaw, figlio di Goose, amico e copilota di Maverick, morto accidentalmente nel primo film, e l’incommentabile storyline amorosa con Jennifer Connelly. Con le pinne, fucile, giubbotto e gli occhiali, Maverick ovvero L’uomo Più Veloce del Mondo combatte più battaglie: quella inesistente contro i superiori, quella interiore contro il ragazzo-figlio (che in realtà non gli rinfaccia la morte del padre ma di averlo ostacolato nella carriera di pilota), quella che fa cadere la mandibola contro i cloni di Darth Vader (non è una citazione casuale), e quella contro il tempo, contro i suoi sessant’anni, contro chiunque gli dica cose come “Il futuro è in arrivo e voi non ci siete” o anche “vecchio, diranno che sei vecchio, con tutta quella forza che c’è in teeeeeee”.
Combatte anche contro la credulità dello spettatore, e non si ferma neanche di fronte a una citazione dell’originale che vista adesso però fa tanto Baywatch.
Ma dietro quell’imminente e immanente senso del ridicolo ci sono anche cose belle: quella regia sempre addosso ai volti che riempiono lo schermo, Rooster che suona “Great Balls of Fire” come suo padre, Highway to the Danger Zoooooooone, il funerale in vita per Val Kilmer, il nuovo pilota antipatico come Val Kilmer che pure assomiglia a Val Kilmer. E Val Kilmer.
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