Torna “Hunger Games” la saga distopica corre tra classici e cult movie
Generazione di mal cresciuti, genitori che hanno gli stessi consumi culturali dei figli, fan delle saghe cinematografiche, adoratori della teen distopia, sono tornati gli Hunger Games! In sala è infatti appena approdato un prequel (a Piacenza lo trovate sia al Politeama che al Jolly) che racconta l’inizio di tutto, i mentori, i tributi, l’arena. “La ballata dell’usignolo e del serpente” è ancora una volta tratto dall’omonimo libro di Suzanne Collins, uscito nel 2020, dieci anni dopo i libri della trilogia originaria, e ruota intorno a un protagonista che ben conosciamo: il giovane Coriolanus Snow, mentore del tributo Lucy Gray Baird, cantante gipsy del Distretto 12. Alla regia c’è ancora Francis Lawrence, che ha diretto tre titoli della tetralogia di film che hanno messo in scena la storia di Katniss Everdeen, la ghiandaia imitatrice, simbolo della ribellione dei distretti contro Panem.
Felici Hunger Games, e che la fortuna possa essere sempre a vostro favore! E rieccoci nelle architetture nazifasciste di Panem, e rieccoci di fronte al dilemma che sconvolgeva Katniss e Peeta Mellark nel famosissimo franchise di Lionsgate che tra il 2012 e il 2015 ha incassato nel mondo quasi 3 miliardi di dollari.
La teen distopia, ovvero un mondo del futuro dove è centrale lo scontro tra cittadini oppressi e governo opprimente ad altezza di ragazzino, sembrava una storia nuova: da quell’enorme successo sono derivati tanti altri titoli simili (da “Divergent” a “Maze Runner”) che ancora adesso affollano le piattaforme (il recente “Alice in Borderland”). Ma ovviamente neanche gli Hunger Games vengono dal nulla: anzi, come tanti altri prodotti cinematografici, sono la versione edulcorata per noi occidentali di quello che (secondo il mercato) siamo in grado di sopportare (oppure ci meritiamo): ci rifanno “Ring” per non farci vedere “Ringu”. E prima degli “Hunger Games” c’era, ad esempio, quel film-bomba di “Battle Royale” del 2000 di Kinji Fukasaku tratto dal romanzo di Koushun Takami: è uno dei capostipiti del genere “survival”, viene citato come film del cuore da registi come Quentin Tarantino ed Edgar Wright, è uno dei film più famosi della storia del cinema giapponese e non lo conosce quasi nessuno.
In “Battle Royale” lo Stato Giapponese, per mantenere l’Ordine tra gli adolescenti, sorteggia una classe a caso e porta tutti su un’isola dove l’unico obiettivo è eliminarsi finché non ne resta soltanto uno. A vegliare sul rispetto delle regole c’è il Professor Kitano (sì, proprio lui, proprio con quel nome nel film). All’epoca, con quel portato di violenza politica e di politica violenta (al contrario degli Hunger Games dove il sangue è quasi sempre fuori scena), il film fu molto discusso in patria, uscì in sala in due versioni, venne censurato in Germania e restò escluso per anni da altri mercati, come quello americano: nel tempo la sua fama di film culto lo ha portato a riedizioni e rimaneggiamenti e anche in Italia, nel 2022, è uscita nelle sale una nuova versione restaurata in 4K contenente scene aggiuntive.
La distopia in letteratura e al cinema nasce tra gli anni ‘20 e ‘30 del ‘900, ma se proviamo a rintracciare un capostipite di questo sottogenere, ovvero dello scontro tra regime e cittadini che si svolge in un’arena, reale o fittizia, troviamo una serie di titoli di culto degli anni ‘70 che vengono tutti dalla letteratura e dove lo stato delle cose non viene messo in discussione finché non arriva un futuro famoso ribelle a mettersi sulla linea di fuoco per cercare di cambiare il sistema: il primo è quel capolavoro di “Rollerball” di Norman Jewison del 1975, che dipinge un futuro dove il mondo è gestito dalle Corporazioni, dove le guerre non esistono più e la fame di violenza viene sublimata attraverso il rollerball, un gioco al massacro in un campo circolare dove alcuni campioni, su pattini a rotelle o in motocicletta, combattono senza regole per vincere. Vi fa venire in mente qualcosa? Panem et circenses è sempre un ottimo modo per gestire il popolo. Subito dopo, nel 1976, esce “La fuga di Logan” del regista britannico Michael Anderson, dove gli individui sono clonati, le loro esistenze pianificate e per risolvere il problema della sovrappopolazione le persone hanno una scadenza: arrivato ai 30 anni vieni invitato al Carousel, tanti auguri! A questa splendida festa di morte non poteva mancare Stephen King, che nel 1982 pubblica con lo pseudonimo di Richard Bachman il terribile “L’uomo in fuga”, dal quale nel 1987 Paul Michael Glaser (lo Starsky del famoso telefilm) dirige “L’implacabile”, interpretato da Arnold Schwarzenegger, pilota militare di un governo totalitario che si rifiuta di sparare su una folla affamata e che per punizione diventa il braccato protagonista di un programma tv che si chiama “Running man”, dove i corridori vengono inseguiti dagli sterminatori. Ma nei panni di Bachman King ha messo su carta un futuro distopico ancora più tremendo, perché senza speranza, e ancora senza trasposizione cinematografica: “La lunga marcia” del 1979, che è a tutti gli effetti un libro del male.
di Barbara Belzini
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