Veni Vidi Vici: tutti i premi di Venezia 80
Dato che non sono proprio una sprovveduta, del Leone d’Oro della 80esima Mostra del Cinema di Venezia avevo già parlato qui.
Tutti (o quasi) i rumors sui vincitori di Venezia 80 sono stati confermati e, in una Mostra che in tutte le sezioni ha riportato fortemente al centro del dibattito gli adolescenti, il futuro, e il senso di colpa di una generazione di adulti, ha vinto la storia di formazione dalla visione vittoriano-steampunk di Yorgos Lanthimos, che ha stregato tutti fin dalla prima proiezione. Comincia oggi, con quel Leone d’Oro, la corsa di Yorgos Lanthimos, Emma Stone (anche produttrice e anima fondamentale del progetto) e del suo gruppo di tecnici straordinari verso la stagione dei premi autunnali che porterà agli Oscar del 2024.
Il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria è stato assegnato a un altro film meraviglioso e di concezione opposta, il mio Leone del cuore: “Il male non esiste” di Ryusuke Hamaguchi, Premio Oscar 2022 come Miglior Film internazionale per “Drive my Car”. Per la prima volta in concorso a Venezia, con “Il male non esiste” Hamaguchi ha portato opera rigorosa, semplice e poetica in difesa della natura e dell’innocenza, ulteriore tassello del suo grandissimo talento di narratore. Il suo racconto contemporaneo è incentrato sulla vita di un villaggio nei pressi di Tokyo, dove vivono Takumi e la figlia Hana. Come altre generazioni prima di loro, conducono una vita modesta assecondando i cicli e l’ordine della natura. Un giorno, gli abitanti del villaggio vengono a conoscenza del progetto di costruire, vicino alla casa di Takumi, un “glamping”, ovvero un camping di lusso per offrire ai residenti delle città un luogo di evasione nella natura. Quando due funzionari di Tokio giungono al villaggio per confrontarsi con la comunità locale, diventa chiaro che il progetto avrà un impatto negativo sulla rete idrica, causando il malcontento generale. Una storia reale, che viene dalle ricerche sul campo condotte dal regista con i residenti del territorio, che hanno ricordato a lui, e a noi, quanto nel tempo ci siamo “snaturati”.
Matteo Garrone, il più convincente degli autori italiani in concorso (anche se Stefano Sollima con “Adagio” ha proposto un buon film, ne riparleremo) con “Io Capitano” ha vinto il Leone d’Argento per la Migliore Regia chiamando sul palco i suoi attori e lasciando la parola al consulente alla sceneggiatura Mamadou Kouassi. Un emozionantissimo Seydou Sarr, il protagonista della sua Odissea contemporanea da Dakar all’Europa attraverso le insidie del deserto, gli orrori del centro di detenzione in Libia e i pericoli del mare, ha vinto il Premio Mastroianni.
Premio Speciale della Giuria per Agniezka Holland per “Green Border”, che ci richiama tutti a fare i conti con la nostra coscienza: la regista polacca ha portato in concorso un film duro sulla drammatica situazione dei rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa al “confine verde” tra Bielorussia e Polonia, che nel 2014 si trovano intrappolati in una crisi geopolitica cinicamente architettata dal dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnko. Nel tentativo di provocare l’Europa, i rifugiati sono infatti attirati al confine dalla propaganda che promette un facile passaggio verso l’UE. In mezzo a questa guerra sommersa, si intrecciano le vite di Julia, che ha rinunciato a una confortevole esistenza per abbracciare l’attivismo, di Jan, una giovane guardia di frontiera, e di una famiglia siriana che cerca disperatamente di raggiungere la Svezia.
Il Premio Osella alla Migliore Sceneggiatura è andato a Guillermo Calderón e Pablo Larraín per il Pinochet vampiro di “El Conde”, commedia dark/horror che ipotizza un universo parallelo ispirato alla storia recente del Cile. Larraín è per me un amatissimo autore che negli ultimi anni ci ha regalato gli stupendi ritratti femminili di “Jackie”, “Ema” e “Spencer” e con questo film ci mostra Augusto Pinochet, un simbolo del fascismo mondiale, nei panni di un vampiro che vive nascosto in una villa in rovina nella fredda estremità meridionale del continente: il dittatore negli anni ha nutrito con il sangue il proprio desiderio di malvagità per perpetuare la propria esistenza. Dopo duecentocinquanta anni, improvvisamente decide di smettere di bere sangue e di abbandonare il privilegio dell’eternità, finché una relazione inaspettata gli offrirà l’ispirazione per continuare a vivere una vita di passione. Lo scrivo con la morte nel cuore: l’intenzione di denuncia del regista cileno è chiara, ma il taglio della sua satira politica sembra indeciso, e il film, nonostante l’eleganza della tirata confezione in bianco e nero, si colloca in una terra di mezzo in cui non fa abbastanza ridere né abbastanza indignare. Dopo di che, mi riservo di rivederlo senza deprivazioni da sonno e da cibo, perché non escludo che qualcosa di importante mi sia sfuggito.
La Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Maschile è stata assegnata a Peter Sarsgaard, protagonista di “Memory” del regista messicano Michel Franco, che finalmente ha portato in concorso una storia convincente, quella di una relazione tra una donna sofferente per un passato di abusi (Jessica Chastain) e un uomo affetto da demenza. Saarsgard, che non è parente di Stellan, Bill e Alexander, ma è sposato con Maggie Gyllenhaal, è un attore dalla carriera lunghissima coinvolto in produzione indipendenti ed era ora che avesse un riconoscimento.
Meno convincente la Coppa per la Migliore Interpretazione Femminile a Cailee Spaney per la “Priscilla” narcotizzata di Sofia Coppola, forse l’unico premio deludente, andato a discapito di una bella occasione di premiare Léa Seydoux per “La Bête” di Bertrand Bonello, film d’autore raffinatissimo che si snoda su diversi piani temporali, immagina un futuro dove l’intelligenza artificiale propone la soppressione dei sentimenti immergendo lo spettatore nelle atmosfere inquiete di David Lynch e Alfred Hitchcock.
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