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Fracchia illuminato come "Suspiria". Tovoli conferma: è il mio lavoro preferito

Gianfranco Di Silvestro
4 febbraio 2025|65 giorni fa
Fracchia illuminato come "Suspiria". Tovoli conferma: è il mio lavoro preferito
6 MIN DI LETTURA
Luciano Tovoli illumina i set con il suo stile unico e visionario. La sua filmografia va da Michelangelo Antonioni a Ettore Scola, passando per Dario Argento. Eppure – in pieno spirito Cinepop – il maestro indiscusso della fotografia conferma che il suo lavoro preferito resta “Fracchia contro Dracula” di Neri Parenti. Perché? «Ho potuto usare le luci dell’horror per una commedia : è un “Suspiria”, però moderato»
Che cosa dovrebbe fare un “bravo” direttore della fotografia, o meglio “cinematographer”, in fase di progettazione di un film?

«Un bravo “cinematographer” deve poter tradurre in immagini i sogni del regista, aggiungendoci anche i suoi. Io mi comporto così, leggo la sceneggiatura con attenzione e dai dialoghi cerco di capire il tono della recitazione, che è importante per poi determinare l’atmosfera in cui si svolge ogni scena. Per quanto riguarda la luce invece, oggi siamo di fronte ad un problema: i film sono tutti uguali. Questo perché si tende negli ultimi tempi, specialmente con le macchine digitali che sono sensibilissime, a girare tutto dal vero, rendendo i film tutti simili dal punto di vista della qualità. Perché non c’è più il “cinematographer” che interviene con le sue luci e ricrea, magari in teatro di posa, l’alba o il tramonto. Ne “Il viaggio di Capitan Fracassa” di Scola, girato tutto nel teatro 5 di Cinecittà, ci sono la neve, l’alba, la notte, la pioggia, c’è il porto di Le Havre ricreato. In teatro il “cinematographer” ha una grande responsabilità, perché non filma una cosa vera, altrimenti fa una fotografia. Se Dio ti dà una bella luce fai bella figura, ma se quel giorno è brutto tempo… non hai il controllo, ecco! ».
Agli inizi ha lavorato con Vittorio De Seta, considerato il padre del documentario italiano. Quanto è stata importante quell’esperienza?

«Il film si intitola “Banditi a Orgosolo” e si ispirava ai bianchi e neri di Ansel Adams, molto contrastati e con neri profondamente scuri. De Seta curava le inquadrature, io la luce, e intervenivo con un minimo di illuminazione, specialmente quando giravamo di notte, ma sempre rifacendomi a criteri di realismo. Per me andare con De Seta ed essere spinto a girare delle cose dal vero, ma che dovevano essere estremamente curate, è stata un’esperienza importante. Il film vinse il Nastro d’argento nel ‘61 per la fotografia in bianco e nero, lo vinse De Seta, perché si firmò lui, anche se ero io che decidevo il diaframma e di fatto ero il direttore della fotografia. Le cose andarono così, fu una bella cosa per me che avevo solo 23 anni, ero un ragazzo. Questa esperienza la portai più tardi a Hollywood. Mi trovai a chiedermi (per “Prima e dopo” del 1996, diretto da Barbet Schroeder, ndc): “In fondo, che differenza c’è tra Meryl Streep e una donna di Orgosolo? Nessuna! È pur sempre una donna, una protagonista”. Trattai il viso di Meryl come un buon fotografo da studio agisce nella luce per togliere i difetti. (Sorride) Tra l’altro Meryl ne ha parecchi: ha il naso storto, il naso va da una parte e il mento dall’altra, quindi va “aggiustato”. Lo puoi fare solo con l’esperienza della fotografia di base».
Parliamo di “Professione: reporter” diretto da Antonioni. Il suo piano sequenza è ormai leggenda tra chi studia l’evoluzione del linguaggio per immagini. Jack Nicholson è nella stanza, la macchina da presa lentamente si dirige verso la finestra, uscendone in volo attraverso le sbarre. Ci racconta la volontà narrativa di questa ripresa e come l’ha realizzata?

«Antonioni non voleva ci fossero sceneggiature in giro. Anche Nicholson riceveva solo le scene del giorno, perché non voleva che ci facessimo troppe opinioni. Lui aveva una tremenda paura dell’interpretazione, voleva fosse la più semplice possibile. Mi parlò di questa inquadratura finale senza tagli, dicendomi che sarebbe stato un modo per passare dalla soggettività che ha tutto il film – nel quale un personaggio parla con un altro si fanno i campi, i controcampi e i primi piani – all’oggettività di quello che succedeva fuori dalla finestra, passandoci attraverso. Un mese prima di realizzarla, lui mi chiese se avevo pensato a come farla. Mi sono ricordato che girando delle pubblicità a Londra avevo utilizzato un elicottero che aveva attaccata lateralmente una palla. Mi spiegarono che era un sistema di ripresa nuovo chiamato Wescam, che ti permetteva di comandare una macchina da presa con una cloche e di vedere le immagini tramite un monitor. Era la prima volta nella storia del cinema che abbiamo avuto una macchina comandata a distanza. Mi venne in mente così di portare questa macchina sul set di “Professione: reporter”, ma c’era un problema. La palla che racchiudeva la macchina da presa era enorme e non sarebbe mai passata attraverso le sbarre. Insistendo molto, perché i due inventori non volevano, riuscii a fargliela smontare e così realizzammo la scena al primo tentativo. Ne facemmo una seconda per sicurezza, ma per fare la seconda, ne girammo altre 14 che andarono tutte male, e quella che sta nel film è la prima, l’unica buona».
Tovoli illumina i set con il suo stile unico e visionario
Come passò attraverso le sbarre della finestra?

«La macchina da presa era attaccata al soffitto con una rotaia. Posizionammo le sbarre ad una distanza un po’ più larga della circonferenza dello zoom. Quindi appena lo zoom si infilava tra le inferriate, le sbarre si aprivano completamente e la macchina continuava la sua corsa sempre su un pezzo di rotaia che proseguiva fuori dalla finestra. A quel punto due macchinisti, posizionati sul tetto, la sganciarono dalla rotaia a la agganciarono ad un cavo, che le permise la sua corsa all’esterno».
L’uso dei colori che fa in “Suspiria”, viene studiato nelle scuole di cinema. Come ha ideato il look di questo film?

«Di Argento avevo visto “Profondo rosso”, incuriosito dalle file interminabili che c’erano fuori dai cinema. Il film era molto bello, ma pensai che non fosse nelle mie corde. Un anno dopo ricevetti la telefonata di Argento che mi chiese di incontrarlo il giorno dopo per parlare di un lavoro. Non sapevo bene cosa fare, ma andai per convincerlo che non ero adatto. Gli dissi che avevo visto solo “Profondo rosso” e che non avevo una passione per la letteratura orrorifica. Il padre di Argento (Salvatore, ndr), che era il suo produttore, mi disse che era la prima volta che chiamavano qualcuno per lavorare che voleva convincerli a non essere preso. Argento mi diede en passant qualche riferimento artistico tipo Escher, al quale lui si ispirava: verso la fine del film, quando la protagonista esce dalla porta e tutto crolla, quello è un quadro di Escher. Alla fine dissi a Dario: “Facciamo così, fammi fare dei provini, se ti piacciono facciamo il film, se no chiami qualcun altro”. Qualche giorno dopo gli mostrai i provini fatti con dei velluti colorati e senza attori, con modelli fissi, avevo chiamato dei miei amici per posare. Durante la proiezione Argento saltò in piedi e gridò: “Questo è il mio Suspiria! Questo è il mio Suspiria!”. A quel punto il film lo dovevo fare. Però un conto era fare dei provini con inquadrature fisse su modelli in posa e un altro era fare immagini in movimento con tutti quei colori dati dai velluti. Comprai tutto il velluto colorato reperibile a Roma, (ride) non si potevano fare più giacche di velluto colorato in quei giorni a Roma. A metà film finirono i velluti e fummo costretti ad andarli a comprare a Milano. Alla fine del film finirono anche quelli, anche perché bruciavano durante le riprese».
Però lei ha dichiarato che “Fracchia contro Dracula”, interpretato anche dalla piacentina Isabella Ferrari, tra tutti i film che ha girato, è il suo preferito. Perché?

«Perché è un “Suspiria”, però moderato. Ero al Festival di Torino quando mi domandarono quale fosse il mio film preferito. Il giorno dopo mi chiamò il regista Neri Parenti e mi chiese se fossi impazzito. Gli dissi che era quello che pensavo. Dobbiamo dire che fotografare un film comico, una commedia, rispetto ad uno drammatico, porta con sé delle differenze enormi».
Infatti ha curato la fotografia di molte commedie: “Bianco, rosso e Verdone”, “L’apparenza inganna” e “La cena dei cretini” di Veber…

«Ecco! Hai toccato proprio il film emblematico, “La cena dei cretini”. Questo film, visto in CinemaScope in una bella sala, è la più bella torta che un bravo pasticciere possa costruire per farti venire l’acquolina in bocca. L’ho fotografato come fosse una torta, luminosissimo! Sempre con una fragola in più! Questa è la commedia; si devono vedere benissimo tutte le espressioni, altrimenti non si rende giustizia alla scena. Luminosità non vuol dire piattezza dell’immagine. Anche nelle scene luminose ci possono essere contrasti, controluce e luci laterali che risaltano il profilo. Con “Fracchia contro Dracula” ho voluto fare un discorso diverso. Non è stato pensato come un classica commedia, ma ricalcava l’idea di “Suspiria”, però temperato dalla comicità di Paolo Villaggio. Penso che se si guarda un film, magari di sfuggita perché viene trasmesso in tv e l’occhio viene attratto, ci si rende conto che c’è qualcosa di bello da vedere. L’immagine non è piatta, iperilluminata, noiosa, come spesso accade. Come i colori di “Suspiria” creano qualcosa di atomico, anche in “Fracchia contro Dracula” avviene un po’ un effetto simile. Così a posteriori, mi sono innamorato di questo film».
di Gianfranco Di Silvestro