"Nel nome del pane" di Luigi Chiarello svela il lato più oscuro dell'agroalimentare
Il giornalista con il suo romanzo vuole incentivare un consumo critico
Leonardo Chiavarini
|1 settimana fa

Luigi Chiarello, giornalista e accademico dei Georgofili- © Libertà/Leonardo Chiavarini
Un thriller alimentare. Si definisce così, fin dalla copertina, il nuovo romanzo "Nel nome del pane”, scritto dal giornalista e accademico dei Georgofili, Luigi Chiarello, caposervizio del quotidiano "ItaliaOggi”, nonché fondatore del supplemento settimanale "AgricolturaOggi”. Al suo esordio nella narrativa di finzione, l'autore conduce i lettori in una trama ricca di colpi di scena, in cui l'impianto del giallo si innesta su un mistero che ha a che fare con il settore agroalimentare e con il gesto intimo del mangiare, sollevando una domanda inquietante: «Chi controllerà il cibo, controllerà il mondo?». Il romanzo, pubblicato lo scorso settembre da "Guerini e Associati”, pur rimanendo nell'ambito della fiction, offre numerosi spunti di riflessione sul nostro presente e sulla relazione tra cibo, potere e interessi economici. Raccontando le vicende intrecciate di più personaggi, Chiarello unisce l'attenzione per i dati, propria del giornalista navigato, a guizzi narrativi in grado di trarre ispirazione da simboli e opere d'arte. Proprio con il giornalista e autore, "Green future” ha avuto modo di parlare del romanzo e di alcuni dei temi che soggiacciono a esso.
Chiarello, come e quando è nato questo romanzo così particolare?
«Era il 2015, mi trovavo in un deserto nel Negev settentrionale, quando – possiamo dire così – il seme di questo libro è stato piantato. Particolarmente significativa è stata anche la frase che mi ha detto, nello stesso anno, un agronomo palestinese nella foresta artificiale di Yatir. Mi disse: "Vuoi una vita completa? Pianta un albero, cresci un figlio, scrivi un libro”. Da quel momento, l'idea di scrivere un libro mi è rimasta in testa. Devo aggiungere poi che il 2015 era l'anno dell'Expo di Milano, la prima Esposizione Universale a porre al centro i temi del cibo e dell'alimentazione. Nonostante, a 10 anni di distanza, quell'esperienza sembri essere stata un po' dimenticata, devo dire che, per me, è stata invece significativa anche ai fini della stesura di questo libro».
«Era il 2015, mi trovavo in un deserto nel Negev settentrionale, quando – possiamo dire così – il seme di questo libro è stato piantato. Particolarmente significativa è stata anche la frase che mi ha detto, nello stesso anno, un agronomo palestinese nella foresta artificiale di Yatir. Mi disse: "Vuoi una vita completa? Pianta un albero, cresci un figlio, scrivi un libro”. Da quel momento, l'idea di scrivere un libro mi è rimasta in testa. Devo aggiungere poi che il 2015 era l'anno dell'Expo di Milano, la prima Esposizione Universale a porre al centro i temi del cibo e dell'alimentazione. Nonostante, a 10 anni di distanza, quell'esperienza sembri essere stata un po' dimenticata, devo dire che, per me, è stata invece significativa anche ai fini della stesura di questo libro».
E ha iniziato a scrivere mosso da quale esigenza?
«Il mio lavoro come giornalista in un quotidiano economico, giuridico e politico mi ha permesso un'osservazione privilegiata sull'attualità. Ecco, ritengo che in questi ultimi anni stiamo vivendo un periodo caratterizzato da fenomeni quali l'intolleranza, il populismo, la perdita della capacità di discernimento. C'è ormai scarso interesse per l'approfondimento critico, mentre, al contrario, spopola il ragionamento per fazioni, per schieramenti opposti, gli uni contro gli altri. In questo contesto, tematiche fondamentali, come l'ambiente o il mondo dell'agroalimentare, vengono continuamente distorte e strumentalizzate. In sostanza, alcune cose passano come verità acclarate, ma spesso sono solo narrazioni utili a sostenere degli interessi. Con questo libro, pur seguendo una trama di finzione, ho cercato di rivelare dinamiche vicine al nostro presente e di lanciare un messaggio di attenzione. Perché, soprattutto quando si tratta di cibo, non si può scherzare. Il cibo non è una cosa qualunque e più di ogni altra riguarda direttamente noi, il nostro essere. Parliamo di un elemento fondamentale in tutte le religioni».
«Il mio lavoro come giornalista in un quotidiano economico, giuridico e politico mi ha permesso un'osservazione privilegiata sull'attualità. Ecco, ritengo che in questi ultimi anni stiamo vivendo un periodo caratterizzato da fenomeni quali l'intolleranza, il populismo, la perdita della capacità di discernimento. C'è ormai scarso interesse per l'approfondimento critico, mentre, al contrario, spopola il ragionamento per fazioni, per schieramenti opposti, gli uni contro gli altri. In questo contesto, tematiche fondamentali, come l'ambiente o il mondo dell'agroalimentare, vengono continuamente distorte e strumentalizzate. In sostanza, alcune cose passano come verità acclarate, ma spesso sono solo narrazioni utili a sostenere degli interessi. Con questo libro, pur seguendo una trama di finzione, ho cercato di rivelare dinamiche vicine al nostro presente e di lanciare un messaggio di attenzione. Perché, soprattutto quando si tratta di cibo, non si può scherzare. Il cibo non è una cosa qualunque e più di ogni altra riguarda direttamente noi, il nostro essere. Parliamo di un elemento fondamentale in tutte le religioni».
Ci fa un esempio di narrazione che passa per verità acclarata, nella nostra realtà?
«Be', ad esempio, alcuni movimenti estremisti demonizzano l'agricoltura e, in particolare, la zootecnia, ritenendole le principali responsabili dell'inquinamento e della crisi climatica; quando, in realtà, i dati ci dicono che l'agricoltura nel suo complesso è responsabile solo di una percentuale che oscilla tra l'11 e il 15% di tutte le emissioni che vengono prodotte. Insomma, inquina, ma non è certo la causa principale che alcuni raccontano. Inoltre, mettere in discussione l'allevamento in maniera così netta significa prendersela con l'attività economica che ha trasformato noi umani in esseri stanziali; dunque, con le nostre stesse radici e con ciò che ci lega ai territori. Il rischio è serio e ha a che fare con le basi della civiltà».
«Be', ad esempio, alcuni movimenti estremisti demonizzano l'agricoltura e, in particolare, la zootecnia, ritenendole le principali responsabili dell'inquinamento e della crisi climatica; quando, in realtà, i dati ci dicono che l'agricoltura nel suo complesso è responsabile solo di una percentuale che oscilla tra l'11 e il 15% di tutte le emissioni che vengono prodotte. Insomma, inquina, ma non è certo la causa principale che alcuni raccontano. Inoltre, mettere in discussione l'allevamento in maniera così netta significa prendersela con l'attività economica che ha trasformato noi umani in esseri stanziali; dunque, con le nostre stesse radici e con ciò che ci lega ai territori. Il rischio è serio e ha a che fare con le basi della civiltà».

Oggi, il marketing è feroce e, spesso, dietro a messaggi virtuosi è in grado di nascondere interessi ben più venali e concreti. Noi, qui su "Green future”, abbiamo spesso parlato di fenomeni di green washing, ma gli esempi in realtà sono tanti, specie nell'agroalimentare…
«Oggi, le campagne di marketing sono sempre più aggressive e raffinate. Addirittura, non solo soddisfano bisogni sempre più specifici, ma cercano anche di creare bisogni inediti. Tutto ciò genera folate ideologiche, che, a loro volta, producono contrapposizioni nocive per la società. Diciamo che, in un periodo in cui la finanza internazionale è più forte degli stati, il marketing riesce a creare movimenti di opinione in grado di influenzare i consumi. Dietro a molte ideologie, ci sono strategie studiate ad hoc, che rispondono a interessi prettamente economici. Uno dei messaggi che il libro rivolge al lettore, infatti, è "Presta attenzione, attua un consumo critico”».
«Oggi, le campagne di marketing sono sempre più aggressive e raffinate. Addirittura, non solo soddisfano bisogni sempre più specifici, ma cercano anche di creare bisogni inediti. Tutto ciò genera folate ideologiche, che, a loro volta, producono contrapposizioni nocive per la società. Diciamo che, in un periodo in cui la finanza internazionale è più forte degli stati, il marketing riesce a creare movimenti di opinione in grado di influenzare i consumi. Dietro a molte ideologie, ci sono strategie studiate ad hoc, che rispondono a interessi prettamente economici. Uno dei messaggi che il libro rivolge al lettore, infatti, è "Presta attenzione, attua un consumo critico”».
Tornando proprio alle pagine del libro: possiamo dire che è peculiare la scelta del macrogenere (un romanzo) e del genere (un thriller dal sapore un po' esoterico) per trattare temi che riguardano l'agroalimentare, il cibo, l'ambiente. Quindi le chiedo: come mai un romanzo?
«Un saggio non sarebbe arrivato nello stesso modo ai lettori. Ho scelto di scrivere un romanzo perché è una forma di narrazione d'impatto, che porta a vivere un'esperienza. Quando leggi e ti immergi nelle pagine, empatizzi con i personaggi, li segui, tifi per o contro di loro. Essendo il cibo un qualcosa di davvero profondo, spirituale, come emerge più volte nel libro, con "Nel nome del pane” ho voluto parlare all'anima e non solo alla testa delle persone».
«Un saggio non sarebbe arrivato nello stesso modo ai lettori. Ho scelto di scrivere un romanzo perché è una forma di narrazione d'impatto, che porta a vivere un'esperienza. Quando leggi e ti immergi nelle pagine, empatizzi con i personaggi, li segui, tifi per o contro di loro. Essendo il cibo un qualcosa di davvero profondo, spirituale, come emerge più volte nel libro, con "Nel nome del pane” ho voluto parlare all'anima e non solo alla testa delle persone».
La polarizzazione tra vegani e onnivori, la rivoluzione delle carni sintetiche…Questi sono alcuni dei temi che sottostanno al libro e per cui lei propone un atteggiamento critico, raziocinante.
«Per quanto riguarda la carne artificiale, il rischio è proprio quello che anticipavo prima, ovvero dimenticare le radici della civiltà umana e recidere i legami con il territorio. Il cibo sintetico finirebbe per concentrare la ricchezza nelle mani di pochissimi privilegiati e sottrarla agli abitanti dei singoli territori. Mentre, per parlare della contrapposizione feroce tra vegani e onnivori, amo citare Leonardo Da Vinci. Fonti accreditate ci dicono che molto probabilmente era vegetariano; eppure, ha comunque progettato girarrosti per le corti rinascimentali. Ecco, un esempio ulteriore di intelligenza e tolleranza. Ciò che oggi, purtroppo, non è certo facile trovare».
«Per quanto riguarda la carne artificiale, il rischio è proprio quello che anticipavo prima, ovvero dimenticare le radici della civiltà umana e recidere i legami con il territorio. Il cibo sintetico finirebbe per concentrare la ricchezza nelle mani di pochissimi privilegiati e sottrarla agli abitanti dei singoli territori. Mentre, per parlare della contrapposizione feroce tra vegani e onnivori, amo citare Leonardo Da Vinci. Fonti accreditate ci dicono che molto probabilmente era vegetariano; eppure, ha comunque progettato girarrosti per le corti rinascimentali. Ecco, un esempio ulteriore di intelligenza e tolleranza. Ciò che oggi, purtroppo, non è certo facile trovare».
A cosa è dovuto, secondo lei, lo spopolare di questo atteggiamento manicheo? Da quando abbiamo smesso di ragionare e tollerare e abbiamo scelto, invece, le fazioni da stadio?
«Per me, la risposta è una: i social. I social hanno polarizzato, perché è una logica che l'algoritmo premia. I social non educano a una lettura complessa, ma procedono per frasi brevi. Questo ha poi contagiato anche i format televisivi e oggi tutto sembra ridursi a puro istinto, declinato in "ceffoni mediatici”. Si legge poco, ci si informa male proprio tramite i social e le scale di grigio che compongono la nostra realtà finiscono per essere ignorate e ridotte a "solo bianco” e "solo nero”. In questo contesto, ho cercato di andare in controtendenza: ho scritto un libro per tentare di discernere la complessità del reale».
«Per me, la risposta è una: i social. I social hanno polarizzato, perché è una logica che l'algoritmo premia. I social non educano a una lettura complessa, ma procedono per frasi brevi. Questo ha poi contagiato anche i format televisivi e oggi tutto sembra ridursi a puro istinto, declinato in "ceffoni mediatici”. Si legge poco, ci si informa male proprio tramite i social e le scale di grigio che compongono la nostra realtà finiscono per essere ignorate e ridotte a "solo bianco” e "solo nero”. In questo contesto, ho cercato di andare in controtendenza: ho scritto un libro per tentare di discernere la complessità del reale».
Il Sator di Aosta, il Serpente bronzeo in Sant'Ambrogio (Milano), il Cenacolo di Leonardo. "Nel nome del pane” è un romanzo che parla di cibo e di scienza, ma i cui snodi principali hanno a che fare con manufatti artistici e teorie che profumano di mistero. In questo senso, come si è sviluppata la trama dei simboli?
«È nata passo dopo passo, con grande divertimento del sottoscritto. Diciamo che, per passione, partivo da una buona conoscenza di questi simboli e delle teorie che li circondano; poi, in un secondo momento, li ho presi a osservare e a studiare in maniera più approfondita. Di molti di questi manufatti, nel libro spiego le interpretazioni più consolidate, arricchite da mie personali considerazioni e interpretazioni. Certo, dal simbolo si trae sempre un significato utile nella trama di finzione, ma questo aspetto non mi ha impedito di fornire al lettore informazioni attendibili, sostenute da fonti, studi e ricerche».
«È nata passo dopo passo, con grande divertimento del sottoscritto. Diciamo che, per passione, partivo da una buona conoscenza di questi simboli e delle teorie che li circondano; poi, in un secondo momento, li ho presi a osservare e a studiare in maniera più approfondita. Di molti di questi manufatti, nel libro spiego le interpretazioni più consolidate, arricchite da mie personali considerazioni e interpretazioni. Certo, dal simbolo si trae sempre un significato utile nella trama di finzione, ma questo aspetto non mi ha impedito di fornire al lettore informazioni attendibili, sostenute da fonti, studi e ricerche».
I personaggi sono tanti e variegati. Se dovesse segnalarne uno che le sta a cuore?
«Ognuno cattura un elemento di me e mi ricorda qualcuno o qualcosa della mia vita. Se devo citarne un paio, direi Nourine, perché porta con sé un grande bagaglio di esperienza, anche dolorosa; e poi, il commissario Sartana, che, nella sua fisicità, è ispirato a Nicola Calipari, da me conosciuto anni fa all'Università della Calabria».
«Ognuno cattura un elemento di me e mi ricorda qualcuno o qualcosa della mia vita. Se devo citarne un paio, direi Nourine, perché porta con sé un grande bagaglio di esperienza, anche dolorosa; e poi, il commissario Sartana, che, nella sua fisicità, è ispirato a Nicola Calipari, da me conosciuto anni fa all'Università della Calabria».

