Kinski vampiro triste. Con un solo chiodo fisso: poter invecchiare e morire
Herzog rilegge Murnau e nel ‘79 realizza un nuovo capolavoro. “Nosferatu, il principe della notte” arriva al Jolly e al Corso
Barbara Belzini
|3 settimane fa

Kinski principe della notte in "Nosferatu"
In occasione del Leone d’Oro alla Carriera consegnato a Werner Herzog alla 82esima Mostra del Cinema di Venezia tornano in sala alcuni suoi capolavori, tra i quali il famigerato “Nosferatu, il principe della notte” del 1979, che sarà riproposto dal Jolly2 di San Nicolò lunedì 17 e martedì 18 novembre (alle 21) e poi al Corso di Piacenza mercoledì 3 dicembre, alle 21 (anticipato mercoledì 12 novembre dalla prima versione di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922).
Herzog realizza non un remake ma una nuova e libera versione del celeberrimo “Nosferatu il vampiro” di Murnau, uno dei titoli fondanti del cinema espressionista, che il regista definisce «il film tedesco più importante di sempre». È dunque un ritorno alle radici questo film per un cineasta appartenente a una generazione orfana, che ha dovuto guardare al cinema dei nonni perché i padri o erano scappati o avevano aderito al sistema di propaganda nazista. Opera a basso budget, girato tra l’Olanda e la Slovacchia in location reali, (non gli hanno permesso di girare in Transilvania perché nella Romania di Ceausescu Vlad l’Impalatore era una figura storica della liberazione dai turchi) il Nosferatu sceneggiato, oltre che diretto, da Herzog si colloca a metà tra il film di Murnau (dal quale il regista monacense mutua non solo la fisionomia del vampiro ma intere sequenze che lo immortalano esattamente come Max Shreck nella pellicola originaria) e il libro di Bram Stoker del 1987.
Nonostante segua la trama del romanzo, ambientato nella Germania di metà Ottocento, che vede il giovane immobiliarista Jonathan Harker raggiungere un castello su un monte della Transilvania per vendere una casa (adiacente alla propria) a un fantomatico conte Dracula (nome che all’epoca Murnau non aveva potuto utilizzare per un problema di diritti letterari ancora attivi: la vedova di Stoker infatti aveva fatto causa sia al regista che alla casa di produzione, la Prana Film), che in realtà cerca solo un modo per essere invitato (come tutti i vampiri) a entrare in casa per “infettare” (i parallelismi con le epidemie sono evidenti) i viventi, il Dracula di Herzog, interpretato dal suo attore-feticcio Klaus Kinski (una relazione faticosissima immortalata nel documentario “Kinski, il mio nemico più caro” del 1999) è un vampiro che detesta la propria condizione di essere immortale, una creatura che vuole con tutte le sue forze partecipare alle emozioni umane.
È un vampiro triste che vorrebbe morire: questo è il centro del film e il più grande elemento distintivo rispetto al film di Murnau, dove Nosferatu è una figura senz’anima, una specie di insetto pericoloso. “Il tempo è un abisso profondo come lunghe e infinite notti – dice Dracula a uno spaventato Jonathan Harker (Bruno Ganz) – I secoli vanno e vengono. Non avere la capacità di invecchiare è terribile: ci sono cose più orribili della morte, come durare attraverso i secoli sperimentando ogni giorno le stesse futili cose”. Un personaggio tormentato, lontanissimo dalla furiosa, romantica e sensuale creatura portata sullo schermo da Francis Ford Coppola nel suo “Dracula di Bram Stoker”, storia d’amore dalle incursioni poppeggianti con un fascinosissimo Gary Oldman a interpretare la versione “urbana” di Dracula e Monica Bellucci nei panni di una delle tre mogli del vampiro.
Kinski-Nosferatu è una figura repellente, deforme, terrea, con denti come zanne di vipera, orecchie appuntite e dita filiformi e ricurve come ragni, risultato di quattro ore quotidiane di trucco. Accanto Herzog gli colloca, nei panni di Lucy, una Isabelle Adjani di struggente diafana bellezza, vergine perennemente vestita di bianco, che dopo aver avvertito il marito del pericolo, cade progressivamente vittima della connessione psichica con la bestia per poi avviarsi decisa verso il proprio destino di vittima sacrificale.
Già dalle prime scene del viaggio di Jonathan verso la Transilvania il film procede con una lentezza ieratica, quasi ipnotica, che è il dubbio che travolge tutti i suoi protagonisti umani, incapaci di distinguere tra sogno, realtà, delirio, malattia: siamo nel 1979 e Herzog costruisce sapientemente insieme ai suoi collaboratori quello che oggi chiameremmo (un favoloso) set design. Dalle mummie vere della sequenza di apertura, trasportate dalle teche di un museo del Messico fino alla grotta in Slovacchia, ai pipistrelli addestrati, agli 11.000 ratti dipinti a mano e lanciati per le strade di Schiedam, ai veri gitani che parlano in romani, alle vere rovine di un castello pieno di storia, dalla natura ostile fatta di rupi nere, orridi, acqua torbida, che circonda la dimora del vampiro alla struttura labirintica di un castello che forse esiste solo nell’immaginazione degli uomini, dall’uso sapiente di luci e ombre al solenne procedere della camera a mano, è tutto vero, è un film di Werner Herzog in tutto il suo splendore.

