Il gioco che insegnava a pensare come Donald Trump
Trump: The Game di Milton Bradley diede il via a una lunga serie dedicata, o ispirata, al presidente
Carlo Chericoni
13 aprile 2025|16 giorni fa

Tra i tanti tentativi di lanciare sul mercato un gioco “alla Monopoly”, è impossibile non ricordare, proprio in questi giorni, quello che vede come testimonial l’attuale presidente degli Stati Uniti.
Pubblicato per la prima volta nel 1989 dall’editore Milton Bradley, Trump: The Game cercava di sfruttare la popolarità del miliardario newyorkese a seguito della sua autobiografia “Trump: L’arte di fare affari” (1987). Una seconda edizione, targata Parker Brothers, sarebbe poi arrivata nel 2004, cavalcando l’onda del successo di “The Apprentice”, il reality show che mise in mostra le doti istrioniche dell’imprenditore.
Spesso descritto come un Monopoly ipervitaminizzato, Trump: The Game chiariva fin da subito la sua natura: non era un gioco da ragazzi. Sulla confezione, accanto all’indicazione dell’età consigliata, campeggiava infatti l’inequivocabile indicazione “Adulti”, tutta in maiuscolo. L’ambizione del titolo era quella di far vivere ai giocatori il sogno di impersonare un multimiliardario senza scrupoli, disposto a usare ogni mezzo per sbaragliare la concorrenza. Una visione spregiudicata della finanza, esplicitata nella lettera a firmata Trump inclusa nel gioco, dove il tycoon ringrazia per l’acquisto e ricorda: «Divertitevi, e ricordate che per fare milioni ci vuole cervello… ma per fare miliardi ci vuole TRUMP!».
La presenza di “The Donald” pervade ogni componente del gioco: dalle pedine a forma di “T” ai dadi personalizzati con una “T” al posto del sei, passando per le Trump Cards, che riportano sotto l’effetto di gioco anche un Trump Tip (un “consiglio di Trump” non richiesto, ma sempre presente). Immancabili, naturalmente, anche i Trump Dollars, banconote dai tagli milionari che mostrano in primo piano il volto sorridente del magnate. Il taglio più piccolo? 10 milioni! Ovviamente qui non c’è spazio per i pesci piccoli interessati all’acquisto di casette verdi a Parco della Vittoria.
A ogni turno, il giocatore pesca una Trump Card e poi sceglie una delle tre azioni possibili: negoziare la vendita di una carta con un avversario, giocare una carta per attivarne l’effetto o tirare i dadi per muovere la pedina sul tabellone. Se finisce su una delle grandi proprietà ispirate agli imperi di Trump, dal casinò all’hotel di lusso, passando per un’aerolinea o un’isola tropicale, scatta la prima, sostanziale differenza con il Monopoly: non è il giocatore a dover pagare, ma è la banca a depositare denaro nella scatola che rappresenta quella proprietà e nessuno potrà controllarne il contenuto fino alla fine della partita; solo chi ha buona memoria terrà a mente quanti milioni sono stati inseriti in ciascuna e regolare successivamente le sue offerte di acquisto per non andare in perdita.
Pubblicato per la prima volta nel 1989 dall’editore Milton Bradley, Trump: The Game cercava di sfruttare la popolarità del miliardario newyorkese a seguito della sua autobiografia “Trump: L’arte di fare affari” (1987). Una seconda edizione, targata Parker Brothers, sarebbe poi arrivata nel 2004, cavalcando l’onda del successo di “The Apprentice”, il reality show che mise in mostra le doti istrioniche dell’imprenditore.
Spesso descritto come un Monopoly ipervitaminizzato, Trump: The Game chiariva fin da subito la sua natura: non era un gioco da ragazzi. Sulla confezione, accanto all’indicazione dell’età consigliata, campeggiava infatti l’inequivocabile indicazione “Adulti”, tutta in maiuscolo. L’ambizione del titolo era quella di far vivere ai giocatori il sogno di impersonare un multimiliardario senza scrupoli, disposto a usare ogni mezzo per sbaragliare la concorrenza. Una visione spregiudicata della finanza, esplicitata nella lettera a firmata Trump inclusa nel gioco, dove il tycoon ringrazia per l’acquisto e ricorda: «Divertitevi, e ricordate che per fare milioni ci vuole cervello… ma per fare miliardi ci vuole TRUMP!».
La presenza di “The Donald” pervade ogni componente del gioco: dalle pedine a forma di “T” ai dadi personalizzati con una “T” al posto del sei, passando per le Trump Cards, che riportano sotto l’effetto di gioco anche un Trump Tip (un “consiglio di Trump” non richiesto, ma sempre presente). Immancabili, naturalmente, anche i Trump Dollars, banconote dai tagli milionari che mostrano in primo piano il volto sorridente del magnate. Il taglio più piccolo? 10 milioni! Ovviamente qui non c’è spazio per i pesci piccoli interessati all’acquisto di casette verdi a Parco della Vittoria.
A ogni turno, il giocatore pesca una Trump Card e poi sceglie una delle tre azioni possibili: negoziare la vendita di una carta con un avversario, giocare una carta per attivarne l’effetto o tirare i dadi per muovere la pedina sul tabellone. Se finisce su una delle grandi proprietà ispirate agli imperi di Trump, dal casinò all’hotel di lusso, passando per un’aerolinea o un’isola tropicale, scatta la prima, sostanziale differenza con il Monopoly: non è il giocatore a dover pagare, ma è la banca a depositare denaro nella scatola che rappresenta quella proprietà e nessuno potrà controllarne il contenuto fino alla fine della partita; solo chi ha buona memoria terrà a mente quanti milioni sono stati inseriti in ciascuna e regolare successivamente le sue offerte di acquisto per non andare in perdita.

Quando qualcuno termina il movimento sulla casella “For Sale” (“In vendita”), sceglierà una delle proprietà invendute e darà il via alla fase più interessante del gioco: l’asta. Ogni giocatore può fare una proposta d’acquisto cercando di superare quelle degli sfidanti, oppure sferrare colpi bassi usando alcune Carte Trump che permettono di far crescere l’offerta sul tavolo con soldi presi dalla banca, escludere immediatamente un avversario dall’asta, oppure annullare questa eliminazione grazie all’intervento provvidenziale di “The Donald” in persona. L’atmosfera di questa fase è molto tesa, con rilanci spavaldi e bluff, una guerra di nervi e portafogli, dove fortuna e astuzia si mescolano.
Il gioco si conclude quando tutte le proprietà sono state acquistate e, coerentemente con il tono della sfida, vince chi ha accumulato più denaro, sommando liquidità residua, valore contenuto in ogni proprietà e bonus attivati dalle Trump Cards.
Sospendendo il giudizio sulla figura di Donald Trump e valutando il gioco per il suo reale valore ludico, bisogna riconoscere che i designer fecero un discreto lavoro. Se è vero che le fasi di movimento sul tabellone possono risultare talvolta noiose o frustranti, la fase delle aste è invece sempre coinvolgente, grazie all’incertezza sul valore reale delle proprietà e al caos imprevedibile generato dalle carte speciali.
Come osservato da siti di approfondimento come Inverse.com, il gioco può essere letto anche come una fotografia della filosofia imprenditoriale degli anni ’80, un’epoca in cui «il banco paga sempre». Nel corso della partita, infatti, la banca eroga continuamente denaro, sia sotto forma di investimenti nascosti sia come finanziamenti diretti tramite le carte: un sistema che sembra incoraggiare la spregiudicatezza degli speculatori più audaci. I giocatori, invece, raramente scambiano denaro tra loro, ma competono per ottenere la fetta più grande di una ricchezza apparentemente inesauribile.
Nonostante molti tendano ad accostare Trump: The Game ad altri esperimenti commerciali fallimentari legati al nome dell’attuale presidente, come le famigerate Trump Steaks (Bistecche Trump), ritirate dal mercato appena due mesi dopo il lancio, questo gioco da tavolo rappresenta in realtà un prodotto figlio del suo tempo e un interessante strumento per capire come la visione del mondo economico di una certa classe d’imprenditori. E, se non altro, non è del tutto terribile.

GLI EREDI DEL MONOPOLY: IMPERI FINANZIARI E SOLDI DI CARTA
Fin dalla sua comparsa sugli scaffali nel 1935, Monopoly è diventato il punto di riferimento assoluto nel mondo dei giochi da tavolo. Non sorprende, quindi, che per tutto il XX secolo siano fiorite innumerevoli imitazioni ispirate alla sua formula vincente: un tabellone da percorrere a suon di dadi, proprietà da acquistare e una pioggia di banconote di carta colorate con cui costruire imperi finanziari.
Elencare tutti i titoli ispirati al noto marchio sarebbe un’impresa titanica, ma questo non ci impedisce di ricordarne alcuni tra i più noti e diffusi sul mercato italiano, capaci di innescare un irresistibile effetto nostalgia in chi è cresciuto negli anni ‘70 e ‘80.
Uno dei più originali e divertenti in questo filone è senza dubbio Crack! (1965), che ribaltava il principio dell’accumulo patrimoniale premiando il primo giocatore che fosse riuscito a sperperare un milione. Le modalità? Gioco d’azzardo, donazioni e operazioni finanziarie disastrose. Una meccanica che i più maliziosi potrebbero vedere come più adatta a un gioco dedicato a Donald Trump.
Tra i titoli simbolo degli anni ‘70 spicca anche Hotel, celebre per i suoi spettacolari elementi tridimensionali che lo rendevano una sorta di versione più scenografica del classico Monopoly.
All’inizio degli anni ‘80, Manager della Editrice Giochi riscosse un buon successo in Italia, complice la sua ambientazione “realistica” nel mondo della finanza e, soprattutto, la possibilità di prendere il controllo di alcune note aziende italiane dell’epoca: Fiat, Omega, Sanpellegrino, Misura e, la preferita da molti, gli Elicotteri Agusta.
A proposito di marchi reali, è impossibile non menzionare alcuni giochi da tavolo promozionali che segnarono quell’epoca. Su tutti Il Mondo con Alitalia (1975), che introduceva interessanti varianti alla struttura di Monopoly, e Il gioco di Milano 3 (1985), dedicato al complesso residenziale costruito dal gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi.
Elencare tutti i titoli ispirati al noto marchio sarebbe un’impresa titanica, ma questo non ci impedisce di ricordarne alcuni tra i più noti e diffusi sul mercato italiano, capaci di innescare un irresistibile effetto nostalgia in chi è cresciuto negli anni ‘70 e ‘80.
Uno dei più originali e divertenti in questo filone è senza dubbio Crack! (1965), che ribaltava il principio dell’accumulo patrimoniale premiando il primo giocatore che fosse riuscito a sperperare un milione. Le modalità? Gioco d’azzardo, donazioni e operazioni finanziarie disastrose. Una meccanica che i più maliziosi potrebbero vedere come più adatta a un gioco dedicato a Donald Trump.
Tra i titoli simbolo degli anni ‘70 spicca anche Hotel, celebre per i suoi spettacolari elementi tridimensionali che lo rendevano una sorta di versione più scenografica del classico Monopoly.
All’inizio degli anni ‘80, Manager della Editrice Giochi riscosse un buon successo in Italia, complice la sua ambientazione “realistica” nel mondo della finanza e, soprattutto, la possibilità di prendere il controllo di alcune note aziende italiane dell’epoca: Fiat, Omega, Sanpellegrino, Misura e, la preferita da molti, gli Elicotteri Agusta.
A proposito di marchi reali, è impossibile non menzionare alcuni giochi da tavolo promozionali che segnarono quell’epoca. Su tutti Il Mondo con Alitalia (1975), che introduceva interessanti varianti alla struttura di Monopoly, e Il gioco di Milano 3 (1985), dedicato al complesso residenziale costruito dal gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi.
