Mark King dei Level 42: «Le nostre canzoni ci entusiasmano ancora»
Incontro con il bassista del gruppo che ha suonato due straordinari concerti alla Royal Albert Hall di Londra

Eleonora Bagarotti
10 aprile 2025|17 giorni fa
Simpatico e sorridente in camerino, travolgente e straordinario in palcoscenico. Questo è Mark King, classe 1958, bassista e cantante dei Level 42, uno dei gruppi protagonisti della recente settimana del Teenage Cancer Trust a Londra. Anzi, il gruppo che si è “mangiato” tutti gli altri (vedi articolo sotto). Quando glielo dico, lui fa un piccolo cenno con la testa e mi ringrazia.
Partiamo da qui. L’entusiasmo che la band ancora dimostra, e che sa accendere nel suo pubblico.
«È veramente straordinario, non è vero? Ovunque andiamo, tutti conoscono le nostre canzoni. Abbiamo avuto, negli anni ‘80, una serie di hit che ancora amiamo suonare e che il pubblico ci richiede. La nostra forza è una grande coesione. Con Mike Lindup suoniamo insieme da 45 anni, con i membri che si sono aggiunti successivamente da 15. Ci conosciamo bene e andiamo d’accordo, questo fa la differenza».
In un certo senso, il Rock è diventato un classico. Ma nel vostro caso, potremmo parlare di Funk, di Jazz e di un mix di generi.
«È così. Non a caso, la svolta definitiva per i Level 42 è arrivata nel 1983 quando ho ricevuto una chiamata da Los Angeles: Larry Dunn e Verdine White degli Earth, Wind &Fire volevano produrre il nostro nuovo album. Andammo là e niente fu più come prima. Spiccammo il volo con “Standing in the Light”. Ci fecero cambiare look, girare video e andare in tour con alcuni grandi artisti, da Steve Winwood a Madonna - anche se non ci rivolse mai la parola (risata) - e tanti altri. Era il nostro quarto album e la Polydor fece una grande festa».

Com’era quel periodo di vorticoso successo, per un gruppo di ragazzi provenienti dall’Isola di Wight?
«Erano anni in cui succedeva di tutto, anche se, personalmente, non ho mai perso la testa. Però sì, ci trattavano come dei re. Ma tra concerti e feste, io ero già padre. Ricordo quando mio figlio, a 5 anni, venne a un concerto e disse “Guarda che figo!” riferendosi al bassista sul grande schermo. Io gli dissi: “Quello sono io!”. Lui sgranò gli occhi... era strano vedere papà in gigantografia».
«Erano anni in cui succedeva di tutto, anche se, personalmente, non ho mai perso la testa. Però sì, ci trattavano come dei re. Ma tra concerti e feste, io ero già padre. Ricordo quando mio figlio, a 5 anni, venne a un concerto e disse “Guarda che figo!” riferendosi al bassista sul grande schermo. Io gli dissi: “Quello sono io!”. Lui sgranò gli occhi... era strano vedere papà in gigantografia».
Lei è “slapman” per quel modo unico di suonare il basso con il pollice. Come nasce “slapman”?
«A 11 anni suonavo la batteria, non avevo soldi per comprarmi una chitarra. Poi feci le consegne del latte. Non amavo studiare e un bel giorno andai a Londra. Mi assunsero come commesso in un negozio di chitarre. Lì, presi in mano il basso. E nacque “slapman”».
La Polydor le assicurò il pollice per 30 milioni di sterline...
«Andò così: una volta, in un incidente, me lo tagliai e sgorgò tantissimo sangue. Tanto che qualcuno mi chiamò “the butcher” (il macellaio) e non più “slapman”. Ma poi il polpastrello è tornato come prima. Ed io sono ancora qui».

DUE CONCERTI STRAORDINARI ALLA ROYAL ALBERT HALL
Mark King ha dichiarato: «Sono davvero emozionato di poter annunciare il 40esimo Anniversary Tour di “World Machine” nel 2025. Come sapranno i nostri fantastici fan, quell’album ha segnato una svolta nella carriera dei Level 42, non da ultimo per il successo internazionale che l’album ci ha regalato. Quindi, non vedo l’ora di rivedervi tutti là fuori il prossimo autunno, quando potremo di nuovo scatenarci in tutte quelle canzoni insieme. Con affetto».
Se tanto mi dà tanto, c’è da augurarsi che i Level 42 facciano un salto anche in Italia. Perché la doppietta dal vivo alla Royal Albert Hall di Londra, in occasione del recente Teenage Cancer Trust, è stata - a dir poco - entusiasmante.
Il gruppo, in versione ampia con l’aggiunta di una strabiliante sezione Fiati, ha mostrato una coesione, un’energia e una sinergia strabilianti. Difficile cogliere una sfumatura più alta rispetto alle altre: tutto era talmente perfetto - nel senso “caldo” del termine - da poter tranquillamente asserire che il concerto dei Level 42 è stato uno dei migliori a cui abbia assistito negli ultimi dieci anni.
Sezione ritmica da volare via, il batterista e il bassista - che, non per caso, viene chiamato «Slapman» - sono un treno a perdifiato, una macchina che macina chilometri su chilometri e, contemporaneamente, concede all’ascoltatore di osservare il paesaggio circostante fatto di voci bellissime, tastiere che si trasformano in fruscianti foreste, assoluta armonia tra le parti. Un vulcano e un lago insieme, per amor di metafora.
Non lo nego: i Level 42, oggi, sono una rivelazione inattesa per me. Un amico mi ricorda che a Torino, nel 1985, regalarono al pubblico una grande serata. Ma non mi era più capitato di riascoltarli o rivederli (mea culpa) dal vivo. A (quasi) tutto c’è rimedio, ed è così che l’aria di Londra mi ha regalato una di quelle eccitazioni sonore che non ricordavo da lungo tempo, pur assistendo a parecchi concerti di alto livello.
E così, il sole di primavera (o, forse, già dell’estate) si è levato nel sound infuocato del basso di Mark King accanto alla chitarra di suo fratello Nathan, alla voce e alle dita magiche sulle tastiere di Mike Lindup (che più volte sale e scende dalla sua postazione alternando voce principale e cori) e alla batteria di un “mostro” (in senso buono) chiamato Pete Ray Biggin. Tutti insieme (inclusi gli ottoni, tra i quali è emerso il saxofono di Sean Freeman), hanno trasportato gli spettatori in volo. Non a caso, il primo brano s’intitolava “Heaven in my hands” - e in Paradiso ci si è arrivati praticamente subito. Hanno fatto seguito “To be with you again”, “Running in the family”, “The sun goes down (Living it up)”, “Starchild”, “Something about you”, la hit più celebre (in Italia, sicuramente) “Lessons in love”, “The chinese way” e “ Hot water”.
Ed è subito nostalgia.
Se tanto mi dà tanto, c’è da augurarsi che i Level 42 facciano un salto anche in Italia. Perché la doppietta dal vivo alla Royal Albert Hall di Londra, in occasione del recente Teenage Cancer Trust, è stata - a dir poco - entusiasmante.
Il gruppo, in versione ampia con l’aggiunta di una strabiliante sezione Fiati, ha mostrato una coesione, un’energia e una sinergia strabilianti. Difficile cogliere una sfumatura più alta rispetto alle altre: tutto era talmente perfetto - nel senso “caldo” del termine - da poter tranquillamente asserire che il concerto dei Level 42 è stato uno dei migliori a cui abbia assistito negli ultimi dieci anni.
Sezione ritmica da volare via, il batterista e il bassista - che, non per caso, viene chiamato «Slapman» - sono un treno a perdifiato, una macchina che macina chilometri su chilometri e, contemporaneamente, concede all’ascoltatore di osservare il paesaggio circostante fatto di voci bellissime, tastiere che si trasformano in fruscianti foreste, assoluta armonia tra le parti. Un vulcano e un lago insieme, per amor di metafora.
Non lo nego: i Level 42, oggi, sono una rivelazione inattesa per me. Un amico mi ricorda che a Torino, nel 1985, regalarono al pubblico una grande serata. Ma non mi era più capitato di riascoltarli o rivederli (mea culpa) dal vivo. A (quasi) tutto c’è rimedio, ed è così che l’aria di Londra mi ha regalato una di quelle eccitazioni sonore che non ricordavo da lungo tempo, pur assistendo a parecchi concerti di alto livello.
E così, il sole di primavera (o, forse, già dell’estate) si è levato nel sound infuocato del basso di Mark King accanto alla chitarra di suo fratello Nathan, alla voce e alle dita magiche sulle tastiere di Mike Lindup (che più volte sale e scende dalla sua postazione alternando voce principale e cori) e alla batteria di un “mostro” (in senso buono) chiamato Pete Ray Biggin. Tutti insieme (inclusi gli ottoni, tra i quali è emerso il saxofono di Sean Freeman), hanno trasportato gli spettatori in volo. Non a caso, il primo brano s’intitolava “Heaven in my hands” - e in Paradiso ci si è arrivati praticamente subito. Hanno fatto seguito “To be with you again”, “Running in the family”, “The sun goes down (Living it up)”, “Starchild”, “Something about you”, la hit più celebre (in Italia, sicuramente) “Lessons in love”, “The chinese way” e “ Hot water”.
Ed è subito nostalgia.
