«Mio figlio è morto per droga: racconto come rialzarsi»

Gianpietro Ghidini ha perso Emanuele nel 2013. Da allora, con la Fondazione Ema pesciolino rosso, incontra giovani e genitori, riempie e commuove platee di tutt’Italia

Paola Brianti
Paola Brianti
|1 mese fa
L’abbraccio tra papà Gianpietro e una studentessa ad uno dei suoi incontri
L’abbraccio tra papà Gianpietro e una studentessa ad uno dei suoi incontri
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Perdere per colpa della droga un figlio di 16 anni e rialzarsi. Farlo per incontrare studenti e genitori, più di 600mila dal 2014, e tornare a quella notte in cui Ema Ghidini, dopo essersi “calato un acido”, si è buttato in un fiume gelido ed è morto, annegato. Ora papà Gianpietro con la fondazione Ema Pesciolino Rosso Ets gira l’Italia per incontrare altri figli e altri genitori e sarà sabato alle 20.30 alla Casa del Popolo di Rivergaro in un incontro organizzato dal Comune a ingresso libero, anche a dire come si sopravvive a un dolore indicibile.
Come ci si rialza?
«Quando Ema è morto volevo morire anch’io, poi ho capito che potevo, come fa un idraulico, accendere fiammelle: quelle di mettersi in gioco, di amare la vita, di credere in un progetto. E intanto abbracciare altri figli, altri genitori, e in quel momento sentire Ema vicino a me».
Molti di coloro che sono stati in platea di fronte a lei sostengono che si pianga molto nell’ascoltarla, nel guardare le foto di Ema che passano sullo schermo.
«È vero, ma non è un pianto di tristezza, bensì di liberazione. Quando sono lì racconto il mio lutto, ma provo ad insegnare la speranza. Ho imparato che l’essere umano non può crescere senza incontrare il dolore, che non è la fine, ma un nuovo inizio. Prima che Ema morisse è come se stessi costruendo un puzzle che lui ha mandato in frantumi. Quando ho ricominciato a comporlo, mi sono accorto che i pezzi più grandi erano fatti di dolore, e li ho accettati».
Da dove il nome “Ema pesciolino rosso”?
«Quella notte, Ema si è gettato nello stesso punto del fiume Chiese dove, una decina di anni prima, insieme, avevamo liberato un pesciolino rosso, da qui il nome della Fondazione nata per tenere i giovani lontano dalla droga».
Cosa dice ai ragazzi?
«Spiego loro che il dolore va ascoltato, invece siamo abituati ad anestetizzarlo, intontendoci di droghe, cellulari, alcol, dipendenze. Piuttosto chiediamoci cosa ci crea ansia. Sono capace di chiedere scusa? So perdonare o faccio sempre guerre? Vivo nella verità o nella menzogna soltanto per piacere? Quando Ema è uscito quella sera, da poco aveva iniziato a frequentare una compagnia di maggiorenni: voleva essere “grande”. Una sciocchezza, una volta sola, che gli è costata la vita. E allora l’obiettivo nostro dev’essere raggiungere non la felicità, ma la serenità: è l’unica cosa che serve».
E cosa insegna ai genitori?
«Racconto i miei errori. Dico loro di non portare a casa stress e frustrazioni dal lavoro, non usare i figli come parafulmini. Non possiamo aspettarci che ci chiedano aiuto se non siamo sereni. Loro sono autorizzati a sfogarsi su di noi. Noi genitori no. E poi consiglio di sottoscrivere con i figli delle regole».
Da genitore, si è perdonato?
«Sì. Che non vuol dire cancellare gli errori che ho fatto. Ma salvarmi e volermi bene».