"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni
Una pizza rustica che ci fa gustare l'essenza della vita
Cecilia Pizzaghi
|1 settimana fa

I protagonisti del libro- © Libertà/Cecilia Pizzaghi
Una delle missioni, decisamente pretenziosa, che mi sono data nel portare il mio format social sulle pagine stampate di un quotidiano è questa, sedetevi forte: convincervi che i giovani spaccano.
Spaccano e non solo nel senso colloquiale di “eccellere in qualcosa”, ma anche nel senso: voce del verbo spaccare, fare a pezzi qualcosa. Il più delle volte fanno a pezzi la concezione del mondo che abbiamo noi adulti. Più raramente, anche il nostro intorpidito cuore.
Spaccano, nel senso che sono sensibili e profondi, nel senso che vivono a contatto con le proprie emozioni, le accolgono, le analizzano e, alcuni, le riescono anche a reinterpretare in certe forme artistiche, dando origine a universi spesso inaspettati, alle volte scioccanti.
Spaccano come nel caso di Bernardo Zannoni, che a venticinque anni ha scritto “I miei stupidi intenti”, a ventisei ha vinto il Premio Campiello e ora, a trent’anni si ritrova autore di un bestseller tradotto e venduto in decine di paesi. Quindi a dirvi che spacca non è la Signora Nessuno che compone queste righe, bensì la giuria di uno dei premi letterari più prestigiosi in Italia e un bel po’ di lettori paganti (e pensanti) in giro per il mondo.
Ma lasciate che mi aggiunga a questo coro, senza giri di parole e con veemenza: Zannoni spacca e “I miei stupidi intenti” è un romanzo eccezionale.
Provo quindi ad argomentare, anche se, fossi in voi, non indugerei oltre e starei correndo a farmi tenere da parte una copia alla Passerini Landi.
Spaccano e non solo nel senso colloquiale di “eccellere in qualcosa”, ma anche nel senso: voce del verbo spaccare, fare a pezzi qualcosa. Il più delle volte fanno a pezzi la concezione del mondo che abbiamo noi adulti. Più raramente, anche il nostro intorpidito cuore.
Spaccano, nel senso che sono sensibili e profondi, nel senso che vivono a contatto con le proprie emozioni, le accolgono, le analizzano e, alcuni, le riescono anche a reinterpretare in certe forme artistiche, dando origine a universi spesso inaspettati, alle volte scioccanti.
Spaccano come nel caso di Bernardo Zannoni, che a venticinque anni ha scritto “I miei stupidi intenti”, a ventisei ha vinto il Premio Campiello e ora, a trent’anni si ritrova autore di un bestseller tradotto e venduto in decine di paesi. Quindi a dirvi che spacca non è la Signora Nessuno che compone queste righe, bensì la giuria di uno dei premi letterari più prestigiosi in Italia e un bel po’ di lettori paganti (e pensanti) in giro per il mondo.
Ma lasciate che mi aggiunga a questo coro, senza giri di parole e con veemenza: Zannoni spacca e “I miei stupidi intenti” è un romanzo eccezionale.
Provo quindi ad argomentare, anche se, fossi in voi, non indugerei oltre e starei correndo a farmi tenere da parte una copia alla Passerini Landi.

Il racconto
“I miei stupidi intenti” è un racconto metaforico che ha come protagonisti gli animaletti del bosco umanizzati e che segue le tracce della faina Archy. Nato in una famiglia mutilata dalla perdita del padre e indurita da una madre divenuta (o rimasta) bestiale per puro istinto di sopravvivenza, ancora giovanissimo, Archy diventa zoppo dopo una brutta caduta, nel tentativo di impressionare il genitore. Lei, senza cuore, governata dalla necessità di preservare solo i figli più forti, si sbarazza di lui, vendendolo alla volpe Salomon.
E qui incontriamo un - se non IL - personaggio straordinario, a metà tra il professor Keating de L’Attimo Fuggente e Darth Vader, tra Seneca e il suo stesso discepolo Nerone: saggio e profondo, più che astuto, di mestiere fa l’usuraio, durante il giorno gira con il suo feroce cane minacciando e punendo i clienti ritardatari, mentre nell’intimità della mastodontica tana in cui vive coltiva la sua spiritualità. Salomon è infatti il primo animale-non-animale che incontriamo nella storia, che non vive lasciandosi dominare dagli istinti ferini, sa leggere e scrivere, è profondamente credente in un dio tutto suo, e soprattutto è consapevole della sua finitudine. Dopo un primo periodo in cui governa dispoticamente sulla vita di Archy, inizia a intravedere qualcosa di speciale nel suo schiavo, una curiosità che può diventare sete di conoscenza. Gli insegna quindi a leggere e a scrivere, a riconoscere il cambio delle stagioni, a dare una misura al tempo e quindi, quasi heideggerianamente, che tutto ha una fine, compresi loro.
“I miei stupidi intenti” è un racconto metaforico che ha come protagonisti gli animaletti del bosco umanizzati e che segue le tracce della faina Archy. Nato in una famiglia mutilata dalla perdita del padre e indurita da una madre divenuta (o rimasta) bestiale per puro istinto di sopravvivenza, ancora giovanissimo, Archy diventa zoppo dopo una brutta caduta, nel tentativo di impressionare il genitore. Lei, senza cuore, governata dalla necessità di preservare solo i figli più forti, si sbarazza di lui, vendendolo alla volpe Salomon.
E qui incontriamo un - se non IL - personaggio straordinario, a metà tra il professor Keating de L’Attimo Fuggente e Darth Vader, tra Seneca e il suo stesso discepolo Nerone: saggio e profondo, più che astuto, di mestiere fa l’usuraio, durante il giorno gira con il suo feroce cane minacciando e punendo i clienti ritardatari, mentre nell’intimità della mastodontica tana in cui vive coltiva la sua spiritualità. Salomon è infatti il primo animale-non-animale che incontriamo nella storia, che non vive lasciandosi dominare dagli istinti ferini, sa leggere e scrivere, è profondamente credente in un dio tutto suo, e soprattutto è consapevole della sua finitudine. Dopo un primo periodo in cui governa dispoticamente sulla vita di Archy, inizia a intravedere qualcosa di speciale nel suo schiavo, una curiosità che può diventare sete di conoscenza. Gli insegna quindi a leggere e a scrivere, a riconoscere il cambio delle stagioni, a dare una misura al tempo e quindi, quasi heideggerianamente, che tutto ha una fine, compresi loro.
Provare i sentimenti
Grazie a Solomon, Archy trascende la sua natura animale e inizia a provare per davvero tutte le cose belle e le cose brutte che gli succedono: ad amare per davvero, non solo avere voglia di riprodursi durante la stagione degli amori, e a soffrire per davvero, quando conosce la perdita dei suoi cari.
La storia di Archy è infatti disseminata di perdite, di abbandoni e tristi saluti. È una discesa nella selva oscura di un essere umano (anche se umano non è) che prova a incolpare gli altri per le sue perdite - prima una madre algida, poi un dio perfido, infine una natura inflessibile - ma che, in ultima battuta, capisce di dover cercare l’errore solo in se stesso. “I miei stupidi intenti” è un pugno nello stomaco che in 250 pagine riesce a inglobare teologia, filosofia e un percorso psicoterapeutico sistemico-relazionale di tipo cinque anni. È un romanzo che sembra scritto da un anziano Hemingway (altro che un venticinquenne!), quell’Hemingway che ha smesso di parlarci di alcool e donne, e vuole accompagnarci nella sua ricerca del senso della vita. E, quasi come fosse Hemingway stesso ad averlo trovato, quel senso sta proprio nella scrittura.
Grazie a Solomon, Archy trascende la sua natura animale e inizia a provare per davvero tutte le cose belle e le cose brutte che gli succedono: ad amare per davvero, non solo avere voglia di riprodursi durante la stagione degli amori, e a soffrire per davvero, quando conosce la perdita dei suoi cari.
La storia di Archy è infatti disseminata di perdite, di abbandoni e tristi saluti. È una discesa nella selva oscura di un essere umano (anche se umano non è) che prova a incolpare gli altri per le sue perdite - prima una madre algida, poi un dio perfido, infine una natura inflessibile - ma che, in ultima battuta, capisce di dover cercare l’errore solo in se stesso. “I miei stupidi intenti” è un pugno nello stomaco che in 250 pagine riesce a inglobare teologia, filosofia e un percorso psicoterapeutico sistemico-relazionale di tipo cinque anni. È un romanzo che sembra scritto da un anziano Hemingway (altro che un venticinquenne!), quell’Hemingway che ha smesso di parlarci di alcool e donne, e vuole accompagnarci nella sua ricerca del senso della vita. E, quasi come fosse Hemingway stesso ad averlo trovato, quel senso sta proprio nella scrittura.
Un grande metalibro
E quindi “I miei stupidi intenti” è un grande metalibro: un libro che celebra la scrittura, che la decanta come se fosse il fuoco di cui Prometeo ci fece dono, che la eleva a strumento che ci rende uomini, la chiave per sbloccare sensazioni e ricordi, ma anche creare connessioni, lasciare qualcosa di noi alle generazioni future e sconfiggere la finitudine che Solomon tanto teme, ovvero sconfiggere la morte.
E quindi “I miei stupidi intenti” è un grande metalibro: un libro che celebra la scrittura, che la decanta come se fosse il fuoco di cui Prometeo ci fece dono, che la eleva a strumento che ci rende uomini, la chiave per sbloccare sensazioni e ricordi, ma anche creare connessioni, lasciare qualcosa di noi alle generazioni future e sconfiggere la finitudine che Solomon tanto teme, ovvero sconfiggere la morte.
Che gusto avrebbe?
E se fosse una pizza sarebbe una pizza rustica, un po’ dura e amara, avrebbe i carciofi, la scarola e le cipolle (ah, forse avrei dovuto dirvi prima che a leggere questo libro si piange come vitelli), e sarebbe in grado di riconnetterci con l’essenza della vita.
E se fosse una pizza sarebbe una pizza rustica, un po’ dura e amara, avrebbe i carciofi, la scarola e le cipolle (ah, forse avrei dovuto dirvi prima che a leggere questo libro si piange come vitelli), e sarebbe in grado di riconnetterci con l’essenza della vita.
Viva la nuova generazione
Probabilmente non sono riuscita a convincervi che i giovani d’oggi non hanno nulla da invidiare a quelle generazioni cresciute senza i social network, senza la DAD e con quei valori che sembrano proprio essersi persi negli anni, insieme alla buona educazione, la ricetta della besciamella fatta in casa e l’analisi grammaticale.
E allora, lasciate che a convincervi che i giovani spaccano sia “I miei stupidi intenti”.
Probabilmente non sono riuscita a convincervi che i giovani d’oggi non hanno nulla da invidiare a quelle generazioni cresciute senza i social network, senza la DAD e con quei valori che sembrano proprio essersi persi negli anni, insieme alla buona educazione, la ricetta della besciamella fatta in casa e l’analisi grammaticale.
E allora, lasciate che a convincervi che i giovani spaccano sia “I miei stupidi intenti”.

