Per digerire le grandi narrazioni niente di meglio che buttarle su ridere

C'è un altro modo di raccontare storie, rendendole esilaranti a colpi di vignette. E' la parodia

Alessandro Sisti
|9 ore fa
Per digerire le grandi narrazioni niente di meglio che buttarle su ridere
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Dopo aver letto l’Officina dedicata agli adattamenti a fumetti dei classici letterari, alcuni amici mi hanno rimproverato (begli amici!) d’averne trascurato un pezzo importante. Di solito sono pronto ad ammettere le mie colpe, però non in questo caso, perché quello che di proposito ho lasciato da parte riguarda un genere diverso: la parodia. La sua importanza è riconosciuta addirittura dal Parlamento Europeo, che in una specifica disposizione ammette l’eccezione al diritto d’autore qualora l’utilizzo di un’opera altrui “avvenga a scopo di caricatura, parodia o pastiche” (che non è un piatto tipico di Bruxelles), ma per quanto condividano l’ispirazione da un originale di partenza, parodie e riduzioni hanno obbiettivi e modalità differenti. Per tradurre a fumetti un romanzo, un’opera teatrale o quello che preferite non è necessario che il grande pubblico già li conosca, visto che lo scopo è proporre in una versione più snella e commestibile qualcosa che altrimenti pochi osano sfidare. È invece necessaria una certa fedeltà e un adattamento è tanto più riuscito quanto più conserva lo spirito del testo iniziale. Tutto il contrario per la parodia, che punta a capovolgere l’originale per scoprirne gli involontari aspetti umoristici o le esagerazioni e da epico e retorico, renderlo caricaturale. Trovare divertente la versione comica di qualcosa di cui non sappiamo un bel niente è però impossibile, così per coglierne l’ironia dobbiamo conoscere l’opera cui è ispirata. Meglio ancora se si tratta di uno di quei capolavori obbligatori nei programmi scolastici, dal valore indiscutibile… reso tuttavia meno apprezzabile dall’averli dovuti mandar giù per forza! Rileggerli in chiave umoristica offre il gusto aggiuntivo di una piccola vendetta, per cui la parodia è tipica della narrativa goliardica e quella a fumetti, fin da quando i “giornaletti” erano considerati un prodotto esclusivamente per ragazzi, ha generato uno dei filoni più celebrati e longevi, che ha fra l’altro il merito d’essere un successo italiano. La sua nascita risale al 1949 e a due capostipiti della scuola disneyana nazionale, lo sceneggiatore Guido Martina e il disegnatore Angelo Bioletto.
Una parodia
Una parodia
Martina, laureato in lettere, è un umanista autentico, ma pur in tempi in cui la cultura accademica tiene a non mescolarsi all’intrattenimento di massa è già aperto a quelli che erano i nuovi media di allora. Negli anni Trenta fonda la società cinematografica Futurista Film dedicandosi alla sceneggiatura e alla regia, realizza per la MGM/Gaumont un documentario sulla Legione Straniera e per l’EIAR, l’ente statale per le trasmissioni radiofoniche che all’avvento della televisione diverrà la Rai, scrive per “I Quattro Moschettieri”, popolarissima radio-parodia dei romanzi di Dumas. Nel dopoguerra inizia a collaborare con Mondadori, che all’epoca pubblica “Topolino”, dov’è rispettosamente soprannominato “il Professore” e i suoi trascorsi paralleli di letterato e autore gli suggeriscono l’idea di parodiare la prima cantica della Divina Commedia, con Topolino nella parte di Dante e Pippo in quella di un improbabile Virgilio. La disegnerà l’amico Bioletto, artista cui si devono le illustrazioni della raccolta di figurine de “I Quattro Moschettieri” – ancora oggi un mito assoluto fra i collezionisti – lanciata da Perugina con il programma radiofonico. È un’operazione avventurosa, a rischio d’essere condannata come una dissacrazione, ma per fortuna funziona e apre la strada alle Grandi Parodie Disney, che in oltre tre quarti di secolo non hanno smesso d’arricchirsi di nuovi titoli. A “L’Inferno di Topolino” si sono aggiunti nei decenni (citandone soltanto una minima frazione) “Il dottor Paperus”, ripreso dal “Faust”di Goethe, e “Paperin Furioso”, dove Paperino – peraltro collerico di suo – veste i panni di Orlando, entrambi di Carlo Chendi e Luciano Bottaro, “Guerra e Pace” di Tolstoj nella rivisitazione di Giovan Battista Carpi o “Sandopaper e la Perla di Labuan” da Salgari, di nuovo di Carpi con Michele Gazzarri, e ancora la goldoniana “Zio Paperone e la locandiera”, di Massimo Marconi, Alessandro Bencivenni e Maurizio Amendola. Ho contribuito pure io con “Il Fantasma di Canterville” di Oscar Wilde, disegnata da Roberto Marini, e “Topolino e la Guerra dei Mondi” da H.G. Wells, insieme a Maria Luisa Uggetti, e se alla storia del fumetto possono bastare le citazioni, da addetto ai lavori trovo interessante considerare quali punti di forza continuino a rendere le parodie gradite al pubblico. Il primo è il fatto che tutti gli autori hanno sempre preso in riferimento le loro opere preferite, così da rileggerle con passione e affetto, non solo con ironia. Di pari passo c’è l’uso di protagonisti che al di là delle usuali caratterizzazioni sono adatti a rivestire qualunque ruolo, per somiglianza come in “Topolino Corriere dello Zar”, di Carpi sui testi di Gian Giacomo Dalmasso, dove l’avventuroso Topolino è un credibile Michele Strogoff di Verne, o per antitesi, come ogni personaggio eroico tocchi a Paperino.
Milan Dog
Milan Dog
Servirsi di un interprete totalmente inadeguato è la formula vincente anche della grande produzione parodistica firmata Leo Ortolani, autore completo – definizione che indica quanti creano sia le sceneggiature sia i disegni delle loro storie – famoso (non solo, però prima di tutto) per la serie di Rat-Man, di per sé una parodia del genere supereroistico. Pavido, inetto, goffo e quant’altro di peggio gli si voglia attribuire, Rat-Man è la negazione del supereroe nonché di qualsiasi vero protagonista, per cui basta a far cadere nel ridicolo trame tutt’altro che umoristiche. Ortolani spazia dai libri al cinema e a ogni saga mediatica, dall’epopea di “Star Wars” a quella di “Avatar”, che diventano “Star Rats” e “AvaRat”, passando con buona pace di Tolkien a “Il Signore dei Ratti” e all’Harry Potter in salsa nostrana de “Il Grande Magazzi” o a “299+1”, che stravolge la graphic novel “300” di Frank Miller e il film che ne è stato tratto, chiedendosi che piega avrebbero preso le cose se uno degli spartani non fosse stato tetragono e muscolare come gli altri. È una forma di travestimento comico incentrato sul personaggio che può fornire opportunità inattese e ne è un modello un fumetto di Danilo Maramotti, pubblicato su “Linus” la bellezza di trentadue anni fa. S’intitola “Milan Dog”, evidente caricatura di Dylan Dog, dove a mettersi la giacca dell’indagatore dell’incubo è Umberto Bossi, affiancato da Philippe Daverio come Groucho. In un attimo si passa alla satira politica, dimostrando – se ce ne fosse bisogno – come la parodia sia, oltreché un genere, un linguaggio con cui è possibile raccontare di tutto e perfino fare opinione. Col che potrei concludere questa chiacchierata, ma buttando all’aria le pile di vecchie riviste in cerca di “Milan Dog” ho trovato un ultimo esempio di parodie che, ciascuna in una singola tavola, riassumono e scompaginano i generi cinematografici. Sono della coppia di giornalisti, autori televisivi e un mucchio d’altre cose formata da Stefano Disegni e Massimo Caviglia (fumettisticamente noti come Disegni & Caviglia, ve li ricordate?) e ne hanno per tutti, dalle pseudo luci rosse di “Cognate bagnate” a “Massacretor”, ossia “Terminator” con la partecipazione straordinaria di Dante, fino a “Usque Tandem contro tutti”, che sfotte i polpettoni storici made in Cinecittà. Mini-film cartacei insensati e irresistibili, che ho tenuto come conclusione per non dimenticare che il bello delle parodie è che fanno ridere.