Attenzione, bambini sulle strisce! Rallentiamo per leggerle
Non è un segnale stradale, bensì un genere del fumetto umoristico dai protagonisti infantili, ma non troppo
Alessandro Sisti
|4 settimane fa

La striscia "Calvin e Hobbes", chiusa dall'autore Bill Watterson dopo dieci anni di successo
Chi non è nuovo di quest’Officina sa che di frequente scrivo di anniversari, rendendo merito a quei protagonisti che da decenni resistono sulla ribalta fumettistica. Lo farò anche stavolta, però con una ricorrenza al contrario, che rappresenta il caso più unico che raro d’una serie di successo mondiale interrotta all’apice della popolarità: Calvin e Hobbes, dell’americano Bill Watterson. Per i non comics-addicted, Calvin è un bambino di sei anni e Hobbes il suo tigrotto di pezza, che per la psicologia dell’età evolutiva ne rappresenta l’oggetto transizionale – il classico orsacchiotto di peluche – funzionale a dargli sicurezza mentre cresce e conquista l’autonomia. Eppure autonomo Calvin lo è fin troppo, nonché dotato d’una fantasia per la quale Hobbes non è un pupazzo, bensì un compagno di giochi con intelligenza e volontà proprie, al punto di tendergli (quand’è in vena di scherzi) agguati come una vera tigre, dai quali Calvin esce malconcio giurando vendetta. Watterson iniziò a disegnarne le strip nel 1985, riscuotendo un’approvazione quasi immediata per cui la serie, diffusa inizialmente sui quotidiani secondo l’uso statunitense, nel giro del primo anno arrivò a essere pubblicata da più di 250 testate. Un apprezzamento duraturo, proseguito tanto sui giornali che su riviste a fumetti e raccolte in volume anche al di fuori dei confini USA, fino a raggiungere un totale di circa 2.400 edizioni in 22 nazioni. E fino al 1995, quando l’autore annunciò il proposito di smettere di realizzarla.

Una decisione che sbalordisce, specialmente nel campo del fumetto che – non dimentichiamolo – è un mercato. Perché chiudere un prodotto più che vincente? La ragione, mai resa nota ufficialmente, sta probabilmente nel rapporto spesso difficile di Watterson con gli editori e le loro richieste, non di rado vicine a imposizioni (regolarmente respinte) di modificare il formato delle strisce o semplificare il tratto dei disegni per adeguarli alle loro esigenze. Pretese inaccettabili per un autore che ha sempre vissuto il mestiere del cartoonist come una forma d’arte, sicché, dopo dieci anni di produzione (peraltro non ininterrotta e con un paio di lunghi periodi sabbatici che già potevano farne intuire la conclusione), Bill Watterson chiuse definitivamente Calvin e Hobbes per darsi alla pittura di paesaggio. Chi legge è libero di giudicarne la scelta, mettendo sulla bilancia gli aspetti positivi e negativi. Una serie tanto amata appartiene anche al pubblico, dunque è giusto togliergliela? Watterson ha rifiutato di cederne i diritti affinché altri le dessero seguito, ma possono i lettori condizionare la libertà dell’arbitrio che un creativo ha sulla sua creazione? O più venalmente, per quanto elevati siano gli ideali artistici, bastano a rinunciare a introiti ormai milionari? Vedete un po’ voi, a me interessa di più analizzare la formula di Calvin e Hobbes – chissà mai che riesca a scrivere qualcosa di altrettanto remunerativo – e per farlo è necessario un fattore di contrasto che ne faccia risaltare gli elementi costitutivi: una strip conosciuta universalmente e di pari successo se non superiore, come i Peanuts di Charles M. Schulz. Ad accomunarle sono i rispettivi protagonisti, bambini in entrambi i casi, e il loro contesto infantile, ma le somiglianze finiscono qui. Calvin e Hobbes, come s’è detto, hanno coperto l’arco di un decennio, i Peanuts mezzo secolo fino alla morte dell’autore, e ci sono differenze ancor più marcate. Dei Peanuts, al di là dei fumetti, è possibile acquistare di tutto, dall’abbigliamento dedicato alle tazze, ai gioielli e a ogni altro genere di gadget, senza trascurare i film e le serie d’animazione. Al contrario, di Calvin e Hobbes Watterson ha sempre vietato il merchandising – vale a dire la produzione di oggetti su licenza, quelli in circolazione sono “tarocchi” non autorizzati – ritenendola una mercificazione dell’immaginario infantile e respingendo perfino le proposte di George Lucas e Steven Spielberg di portare la serie sugli schermi cinematografici. Proseguendo, nel suo mondo fantastico Calvin è felicemente solo, a parte Hobbes nessuno lo condivide e i compagni di scuola sono irrilevanti comparse occasionali. Più caratterizzata è Siusi Derkins, esecrata quota rosa poiché Calvin è in quell’età in cui le bambine sono una specie infestante non gradita, dunque ha battezzato il suo club segreto (unici soci lui e Hobbes) con la sigla P.A.R.V., ovvero Proibito Alle Ragazze Viscide. Calvin sgomenta e disgusta Siusi con le proprie affermazioni, per esempio sostenendo che il panino con la mortadella che la mamma gli ha confezionato per il pranzo è farcito di bassotto, e più saltuariamente appare Sancio (in originale Moe), il bullo della classe che si fa già la barba a sei anni, contro la cui brutale ottusità l’immaginazione di Calvin è costretta ad arrendersi. La scena dei Peanuts è al contrario corale, con i personaggi principali come Charlie Brown, Linus o Lucy attorniati da una costellazione di secondari, da Sally a Piperita Patty e a Schroeder con il suo piano-giocattolo, con i quali Charlie Brown si confronta uscendone sconfitto, mentre Linus si difende con la sua peculiare filosofia. Nell’ecosistema dei Peanuts non esistono adulti, presenti nell’animazione con le sole voci mutuate da suoni incomprensibili, perché i protagonisti sono a loro modo adulti in formato ridotto. Calvin invece interagisce con i genitori, con la maestra Vermoni (miss Wormwood nell’originale) e con la babysitter Rosalyn, che danno risalto alla sua dimensione di seienne che rifiuta la banalità del reale. Charlie Brown è sempre e soltanto il buon vecchio Charlie Brown per chi lo conosce meglio e per gli altri “il bambino con la testa rotonda”, obbligato ad accettare se stesso e tutto il peso esistenziale che ciò comporta. Per parte sua Calvin di giorno in giorno decide di essere l’eroico astronauta Spiff, il supereroe Stupendoman oppure il detective Tracer Bullet, forte di un ego iperconcentrato che non teme le metamorfosi, accostabile nei Peanuts solo a Snoopy, che secondo l’umore è lo spavaldo Joe Falchetto, il pilota della prima guerra mondiale in perenne contesa col Barone Rosso, o l’avvocato che si esprime per dotte citazioni latine. Ma Snoopy è un bracchetto.

Due concezioni tanto opposte da rendere impossibile capire quale seguire per concepire strisce capaci di conquistare il pubblico. Neppure il trascorrere del tempo, che con l’evolversi dei gusti e della scena sociale accantona un prodotto narrativo in favore di un altro, offre un discrimine. A venticinque anni dalla dipartita di Schulz, i Peanuts restano un caposaldo del fumetto globale continuamente ripubblicato e riletto, così come la raccolta completa di Calvin e Hobbes, trent’anni dopo che Watterson ne ha cessato la produzione, nonostante il costo rilevante ha venduto a oggi oltre 30 milioni di copie. A chi giurare eterna fedeltà e da quale prendere esempio? Al bambino che condivide le nostre frustrazioni e ne aggiunge di proprie insieme al suo compagno dall’inseparabile coperta, o a quello impermeabile alla realtà e indivisibile dal tigrotto di stoffa? Magari a tutt’e due, perché nei fumetti e nel’immaginario del pubblico c’è posto a sufficienza e – già che ci siamo – anche a Mafalda, la bambina disincantata e intellettuale del fumettista argentino Quino, che propone un altro modo ancora per parafrasare il mondo attraverso uno sguardo pseudo-infantile. Ma come si dice, questa è un’altra storia. Anzi, un’altra striscia.


